|
ADRIATICO II Parte Il Clandestino
La notizia dell’Armistizio tra l’Italia e gli Alleati viene accolta in Dalmazia con sorpresa, stupore ed addirittura gioia, come del resto in tutto il Regno. Anni dopo molti reduci ricorderanno i commilitoni che la sera dell’ 8 settembre 1943 nel cortile delle caserme urlano di gioia, saltellano come bambini all’uscita da scuola, sia abbracciano ubriachi di felicità, lanciano in aria elmetti gavette ed armi, cantano, sparano in aria e lanciano i razzi di segnalazione come se si trattasse di mortaretti alla festa del Patrono e iniziano a preparare gli zaini, in attesa dell’ordine che può essere uno solo, quello del ritorno a casa. Questo mentre i comandanti delle unità cercano inutilmente di contattare Roma dove nessuno risponde ai telefoni che squillano all’impazzata negli uffici ormai abbandonati del Ministero della Guerra e del Comando Supremo. Come nel resto d’Italia e dei territori occupati i milioni di soldati italiani, abbandonati da chi aveva il dovere di guidarli, si trovano a fissare un baratro, un abisso che per chi si trova in Jugoslavia e nella stessa Dalmazia sembra ancora più oscuro e profondo. Come scrive lo storico Oddone Talpo, testimone degli avvenimenti, nel terzo volume del suo essenziale “Dalmazia, una cronaca per la storia” (pag. 1042)
“(..)
s’imposero
subito altre considerazioni: la consapevolezza di un
Adriatico che si frapponeva al desiderio della casa;
il timore dei tedeschi e della prigionia; l’incerta
affidabilità dei partigiani sino a quel momento
nemici ed ora allettantemente amici. Da qui, dopo lo
sbando iniziale, il ricomporsi dei reparti, per
trovare nella collettività un minor senso di
insicurezza; la giornaliera necessità di un rancio
che veniva più facilmente risolto nell’ambito di una
squadra o di un plotone. Chi restava isolato andava
allo sbaraglio oppure una particolare forza d’animo
(..) “ Il maresciallo Pacifico Pascali, sino a quel momento più un tranquillo burocrate di questura che un severo occupante, avrà avvertito un brivido lungo la schiena ed una sensazione di smarrimento, la stessa di ogni italiano in quel momento. Forse alla notizia il questore di Spalato avrà riunito i propri funzionari in ufficio, per cercare di organizzare un efficiente ordine pubblico nelle strade, insieme alle Forze Armate. Sarebbe logico supporre che addirittura abbia tenuto un breve discorso ai propri uomini, esortandoli alla calma ed a attenersi agli ordini, in nome della Patria e del Re eccetera. Qualsiasi cosa abbia fatto il questore, molto probabilmente non sarà servito a nulla. La Polizia, come il resto delle Forze Armate italiane e dell’apparato statale, si dibatte nell’incertezza e nel timore dell’avvenire e nell’incoscienza più totale. Come scrive il professor Guido Posar, vicedirettore della scuola media tecnica di Spalato
“Rimango fulminato: così
d’improvviso la pace? Tutto il cataclisma risolto in
un baleno? Possibile?” (da “Naufragio in Dalmazia”, ed. Monciatti 1956, pag.79) ma forse la frase emblematica di quel momento è quella del provveditore agli studi di Zara, Edoardo Giubelli, che dalle finestre dei propri uffici nel capoluogo dalmata, urla ad alcuni soldati che stanno inneggiando alla pace nelle strade sottostanti
“Cantate! Cantate ! la
guerra, cretini, comincia ora!”
(Oddone Talpo,
op.cit. pag. 1118)
Già, perché mentre
i soldati italiani cantano nelle strade o
preoccupati e smarriti rimangono attaccati ai
telefoni, cercando di parlare con i responsabili di
uffici ormai deserti a Roma, tedeschi e partigiani
jugoslavi si muovono verso le principali città
dalmate. A Cattaro, nell’estremo sud della regione,
iniziano i primi violentissimi combattimenti tra
italiani e tedeschi. A Zara i tedeschi riescono ad
entrare in città senza colpo ferire, mentre a
Spalato i partigiani comunisti jugoslavi si
incontrano nella giornata del 9 settembre con il
generale Becuzzi, comandante della divisione di
fanteria “Bergamo” studiando il loro ingresso in
città, che avviene poche ore dopo.
Il professor Posar,
incredulo, descrive l’esplosione di gioia della
comunità slava, che pregusta la fine
dell’occupazione. Centinaia, forse migliaia di
persone sventolano bandiere o indossano capi di quel
colore
e, sfilando sulle
rive a bordo di camion e furgoncini impazziti dalla
felicità cantano l’Internazionale ed inni
patriottici. Addirittura ci sono
dei militari italiani che sventolano, per quanto con
scarso entusiasmo, pezzi di carta rossa e stracci di
stoffa dello stesso colore. Chissà se succede anche
al maresciallo Pascali, sicuramente schierato in
ordine pubblico.
E’ una giornata
folle, incredibile, che si conclude alle 19 con una
specie di assurdo passaggio di consegne, quando un
capo partigiano dal gran fazzoletto rosso annodato
al collo si arrampica su un nostro carro armato
schierato insieme ad altri sulle Rive e, con gesto
enfatico, porge la mano al nostro capo carro, un
giovane tenente che dopo qualche esitazione la
stringe, scatenando un uragano di applausi tra la
folla assiepata. Mentre le pattuglie
dell’esercito e delle forze di polizia continuano a
pattugliare la città durante il coprifuoco, come se
nulla fosse accaduto, gli italiani si chiedono che
cosa accadrà.
“ Tutti ci chiedevamo: ed
ora che faremo noi qui? Che sarà di noi?
i più ottimisti vedevano la nostra posizione
così: l’Italia non è più in guerra (…). Fatta ora la
pace con i partigiani, noi resteremo qui a vedere
come le cose si mettono. L’esercito italiano
conserva le armi per tutelare il suo nuovo stato di
armistizio e magari difenderlo contro chiunque. La
Dalmazia sotto la protezione dell’Italia? Siamo come
a casa nostra”
(Posar, op.cit.,
pag. 83) Il giorno successivo,
il 10 settembre 1943, è l’ultimo di Spalato
italiana. I partigiani si
infiltrano in città, sotto gli occhi delle autorità
italiane che non vogliono, non possono o addirittura
non sanno cosa fare, in assenza di ordini da Roma.
Il generale Becuzzi, comandante della divisione
“Bergamo”, che ha anche i poteri di autorità civile,
ordina che i
detenuti politici vengano liberati dalle prigioni
cittadine prima di mezzogiorno, quindi dopo un breve
incontro prima con i capi degli slavi filo italiani,
i quali ricevono armi e munizioni e poi con i capi
partigiani comunisti nel corso del quale rivela di
avere ricevuto dalla II Armata, con sede a Fiume,
l’ordine di
“appoggiare qualunque
iniziativa partigiana et prendere accordi per lotta
contro tedeschi”
. Nel pomeriggio la situazione è caotica ed incerta ed a distanza di oltre settant’anni non è possibile ricostruire con accuratezza i movimenti del generale Becuzzi, l’uomo che è responsabile della vita di migliaia di civili e militari, il quale nel pomeriggio riceve dal corpo d’armata l’ordine di evacuare la comunità italiana. Il prefetto ed il questore cercano di capire come organizzare in un paio d’ore l’evacuazione di duemila persone, ma l’operazione è approssimativa e lascia al lettore moderno una avvilente sensazione. Mentre alle porte della città alcuni reparti italiani combattono contro i tedeschi, il generale Becuzzi riceve dai propri diretti superiori del XVIII Corpo d’Armata a Zara, il testo di un accordo stretto con i tedeschi che contraddice gli ordini della II Armata ricevuti il 9. Becuzzi non sa che fare e di fronte ai capi partigiani con cui sta svolgendo trattative per schierare la “Bergamo” dalla loro parte è costretto a rivelare l’ordine contraddittorio appena ricevuto. L’unico risultato che riesce ad ottenere, dopo l’iniziale sorpresa dei partigiani jugoslavi, è la decisione di questi ultimi di impossessarsi delle armi della divisione poiché è ormai certo che gli italiani non si opporranno ai tedeschi. Del resto gli stessi italiani cercano l’accordo con i tedeschi, in un caos nel quale è difficile riuscire a districarsi. Quando una nave affonda si dovrebbe dare precedenza alle donne ed ai bambini. Invece, dalla Spalato italiana che sta per scomparire dalla Storia, sul convoglio dove dovrebbero salire i civili, nella tarda serata del 10 si imbarcano invece i fondi della Banca d’Italia cittadina, i labari di quattro reggimenti e circa trecento tra ufficiali e personale della Regia Marina. Chi, come il professor Guido Posar, cerca di imbarcarsi sul “Baroni” viene cortesemente respinto dalle pattuglie che sorvegliano i moli e poi definitivamente bloccato da due carri armati italiani, inviati dal comando della “Bergamo” in accordo con i partigiani per bloccare l’evacuazione
“ (..) perché ogni civile
italiano, prima di lasciare il suolo di Dalmazia
avrebbe dovuto rendere conto del suo operato ad un
tribunale partigiano che avrebbe avuto piena facoltà
di giudicarci, piena libertà di condannarci a sua
discrezione (..) (Posar, op. cit., pag. 95) l’11 settembre, dopo due bombardamenti aerei tedeschi, il morale degli italiani è a terra. I partigiani affiggono nelle strade di Spalato un manifesto con il quale si ingiunge ai nostri soldati di consegnare le armi. Il comando della “Bergamo” si dibatte nell’incertezza e di questo approfittano gli slavi, disarmando i nostri militari isolati ed in alcuni episodi addirittura spogliandoli delle divise. Posar assiste sbigottito dalle finestre della scuola dove si è rifugiato ad un episodio incredibile. Un adolescente croato ferma due autocarri con a bordo una trentina di carabinieri e ordina loro di scendere tutti lasciando a bordo dei mezzi armi e giacche. E’ incredibile, ma i nostri militari mestamente obbediscono al ragazzino, forse appena quindicenne. Spalato è nel caos più totale, con i militari avviliti e sconfitti mentre molti croati armati di fucile si uniscono ai partigiani ed altri si danno al saccheggio. Quello stesso giorno il questore, il vicequestore ed alcuni funzionari abbandonano i propri uomini imbarcandosi su un motoscafo della Polizia che lascia il porto cittadino. E’ di fronte a quel cupio dissolvi che il maresciallo Pascali prende una decisione alla quale non ha certo mai pensato nel corso della propria carriera. Mentre i partigiani iniziano a fucilare sommariamente agenti e carabinieri, Pascali decide di entrare in clandestinità. Forse si nasconde in casa di qualche amico croato, dato che non può fare parte di quel gruppo di giovanissimi agenti che si uniscono al gruppo di insegnanti, tra i quali il professor Posar, rifugiatisi in una scuola cittadina. In quei giorni si scatena una feroce caccia all’uomo, sicuramente sulla base di elenchi già pronti e che vede la presenza di italiani tra i cacciatori. Posar racconta dell’irruzione nella scuola di un gruppo di partigiani jugoslavi coordinati da un giovane dallo spiccato accento toscano a caccia di poliziotti fuggiaschi. Nella prima parte di questo racconto abbiamo parlato anche di almeno un agente della questura di Spalato che dopo l’8 settembre si arruola tra le file della guerriglia. Volente o nolente anche costui sarà stato impiegato nella caccia ai propri colleghi, la cui sorte sarebbe stata amaramente chiara. In quegli stessi giorni di settembre il generale Becuzzi, comandante della “Bergamo” , è sempre più in preda all’incertezza. Ha cercato un accordo con i partigiani ma ha fallito tanto che adesso i guerriglieri euforici e vendicativi stanno scorrazzando in città, ha cercato contatti con i tedeschi ed ha fallito ed i tedeschi l’hanno fatta pagare con i bombardamenti . La sua grande unità si sta dissolvendo nel modo più umiliante che possa immaginare. Il 12 è costretto ad accettare l’umiliazione definitiva: la cessione di tutte le armi ed i materiali all’Esercito Popolare jugoslavo, ad eccezione di un centinaio di fucili per il corpo di guardia delle caserme, le pistole degli ufficiali e sette veicoli tra auto e camion. La soluzione peggiore, quella di non schierarsi né da una parte né dall’altra e che condanna non solo la divisione, ma ciò che rimane degli italiani di Spalato. E’ in quel fatidico 12 settembre che i soldati dell’esercito popolare jugoslavo irrompono nella scuola italiana di Spalato, insieme all’italiano dall’accento toscano, probabilmente un militare che ha abbandonato la Bergamo. I partigiani sono alla ricerca di poliziotti da uccidere, ma gli insegnanti riescono a salvarli, nascondendoli e negando la loro presenza. Quando gli jugoslavi si allontanano, i giovani agenti se ne vanno anche loro. Sono i giorni terribili in cui sui muri di Spalato appaiono i manifesti con gli elenchi delle persone da fucilare. Non c’è bisogno di essere responsabili di crimini per rischiare la morte. Basta avere indossato una divisa o avere ricoperto un qualsiasi ruolo, anche se innocuo, all’interno dell’amministrazione italiana. C’è un solo posto in cui gli italiani possano fuggire, ed è la grande caserma di Spinut, alla periferia di Spalato, l’unico luogo dove sventola ancora il Tricolore e che ora rigurgita di soldati e di civili. Forse più di 16.000, secondo quanto racconta il professor Posar. Probabilmente è qui che si rifugia anche il maresciallo Pascali, insieme a decine di colleghi della questura di Spalato, vivendo con la spada di Damocle jugoslava sulle loro teste e udendo il rombo dei cannoni tedeschi provenienti appena fuori dalla città, mentre per una settimana gli aerei tedeschi lanciano sulla città volantini con i quali si invitano i soldati ad unirsi alle truppe del III Reich. Il 19 settembre è una giornata insolitamente tranquilla quando gli aerei tedeschi attaccano Spalato. Uno degli obiettivi è la grande caserma di Spinut che viene investita con violenza. Le bombe martoriano la struttura militare, mentre le mitragliatrici massacrano tutto ciò che si muove. Se Pascali si trova all’interno della caserma bombardata, forse le sue sensazioni sono quelle vissute dal professor Posar, anch’egli rifugiatosi a Spinut e che cerca di sopravvivere all’uragano di fuoco e ferro che si sta abbattendo su di lui. Il racconto che ne fa Posar è drammatico
“Corro alla cieca sotto
archi di terriccio e di sassi sollevati dai
proiettili. Sbatto a terra continuamente
scaraventatovi dallo spostamento d’aria […] giunto
in fondo al cortile della caserma un muro di quattro
metri circa mi si para innanzi , un muro ad angolo
retto e a lieve bugnato. Come mi vi arrampicassi […]
io non lo so. Ricordo soltanto che in pochi attimi
fui su, La furia degli aerei che ci perseguitavano
tramutava le mie braccia in ali. Ma giunto in cima
al muro ecco un altro ostacolo: una rete metallica
alta circa un metro e mezzo […] ricordo che in
quell’angolo non vi era un unico palo di ferro a
reggere le due reti, ma due pali stretti l’un
all’altro e confitti nel cemento. E ognuno reggeva
una rete. Io non dico di averli, con un gesto da
sansone, divisi quei due pali per passarvi trammezzo.
Però anche per me resta un mistero come io abbia
superato quella rete e fulmineamente […] “ (op.cit. pag. 147-149) Quel mattino muoiono 205 civili, tra civili e militari. Tra questi numerosi agenti della questura, che si sono rifugiati a Spinut, confidando in quel Tricolore sempre più sfilacciato che sventola sulla caserma, perché l’avvenire all’esterno di quelle mura per loro è sempre più incerto. Il 17 settembre, nel corso di un incontro tra il generale Becuzzi e i comandanti jugoslavi, favorito dalla mediazione dei consiglieri militari angloamericani presso il comando dell’EPLJ, è stata chiesta la consegna di “coloro che si erano resi responsabili di crimini di guerra”, un termine così generico che apre la strada alle rappresaglie indiscriminate. E’ solo grazie alla mediazione del rappresentante inglese che ad un riluttante Becuzzi viene imposta una soluzione alternativa: la consegna di undici italiani, per la maggior parte poliziotti. Undici al posto di quattordicimila militari. Dopo molte esitazioni Becuzzi è costretto ad accettare. La sua soluzione significa la salvezza dei suoi soldati, ma l’abbandono dei civili. Il giorno successivo inizia il rimpatrio dei primi militari della “Bergamo” e quel mattino stesso appaiono nelle strade di Spalato i manifesti con i quali il tribunale militare partigiano comunica la condanna a morte e l’avvenuta fucilazione di 22 persone, tra i quali otto italiani, (sette sono poliziotti). Sarà la prima delle quattro fucilazioni di massa compiute dagli jugoslavi a Spalato fino al 24 settembre nelle fosse comuni del cimitero di Spalato. Nei giorni successivi, mentre gli stukas tedeschi continuano a martellare la città e i partigiani persistono nelle fucilazioni, i militari italiani continuano ad evacuare la città. Nelle prime ore del mattino del 24 settembre il generale Becuzzi abbandona Spalato diretto verso Bari insieme a centinaia di soldati, lasciandone a terra altre migliaia, tra i quali i generali Alfonso Cigala Fulgosi, che a Spinut ha assistito sbalordito alla dissoluzione del Regio Esercito in Dalmazia, Salvatore Pelligra e Policardi, rispettivamente comandanti dell’artiglieria e del Genio del XVIII Corpo d’Armata, che hanno rifiutato di imbarcarsi per non abbandonare i loro uomini. Il Capo di Stato Maggiore della “Bergamo”, che si imbarca sull’ultimo convoglio insieme a Becuzzi, oltre a giustificare l’allontanamento del suo generale (ed il proprio) con motivazioni di carattere militare che a chi scrive destano parecchie perplessità, si esprime su Pelligra e Policardi in toni che non possono non destare altrettante perplessità ed amarezza e che per carità di Patria preferiamo non riportare, soprattutto se riflettiamo sul fatto che i due generali ed il loro comandante, Cigala Fulgosi, moriranno con coraggio meno di una settimana dopo, donando la loro vita all’Italia alla quale dedicheranno le loro ultime eroiche parole. Il convoglio del generale Becuzzi non è ancora giunto a Bari, che dalle carceri di Spalato scompaiono decine di prigionieri, tra i quali la maggior parte dei poliziotti prigionieri, che vengono fucilati nel cimitero di San Lorenzo di Spalato tra il 23 ed il 24 settembre insieme a numerosi altri cittadini italiani, croati e serbi, prelevati dalle carceri cittadine E’ una carneficina spietata, feroce, ma non certo metodica. Non essendovi mai stato un regolare processo, non sappiamo e certo non sapremo mai quanti pagarono le proprie colpe e quanti pagarono per le colpe di altri. Considerato che individui come il maresciallo F., il famigerato responsabile dell’ufficio politico della questura di Spalato, sfuggirono all’esecuzione, propendiamo per la seconda ipotesi. A questo proposito però è interessante chiedersi come i vari marescialli F. scamparono alla cattura ed alla morte, se per semplice fortuna o grazie a complicità ancora oggi inconfessabili tra biechi invasori fascisti e nobili liberatori jugoslavi. E’ una domanda che non avrà mai risposta e che, con ogni probabilità, venne sepolta nel cimitero di San Lorenzo. In quei giorni di terrore muoiono in tanti. La regia questura di Spalato subisce le perdite peggiori, con quarantuno giustiziati, ma a pagare sono tutti gli italiani di Spalato, come il provveditore agli studi di Spalato, il dalmata di etnia italiana Giovanni Soglian, un patriota di grande integrità che il professor Posar considera il proprio mentore e al quale è profondamente devoto. A morire è anche il professor Loginbuhl, preside del liceo, rientrato dall’Italia per rimanere accanto ai propri insegnanti. In tutta onestà è difficile credere che persone come queste si fossero responsabili di chissà quali crimini ai danni della popolazione slava, come è difficile credere che lo fossero tutte le centinaia di italiani fucilati in quei giorni orribili. Il 25 settembre i tedeschi entrano a Spalato, abbandonata in fretta e furia dai partigiani. Forse è allora che il maresciallo Pascali esce allo scoperto dal suo ignoto rifugio e trova che Spalato è cambiata definitivamente. Ora comandano i tedeschi, che il 1° Ottobre si occupano di fucilare i generali Cigala Fulgosi, Pelligra e Policardi ed altri 43 ufficiali, di rastrellare tutti gli ebrei spalatini e di deportare in Germania i 9000 soldati della “Bergamo”. Guido Posar assiste commosso alla deportazione dei militari e all’omaggio reso loro dalla popolazione spalatina.
“Una fila, un corteo che
non finisce più (…). Ma quello che impressiona (…) è
vedere il minuto popolo di Spalato, donne e ragazzi,
accorsi in massa a salutare i nostri soldati (…) .
Mai più dimenticherò la visione di quel corteo
interminabile che va a perdersi nella notte e
quell’umile popolo quanto affetto ebbe a mostrare
per i nostri soldati, come fossero uomini loro,
figli, mariti, fratelli (…) . Così il nostro
esercito se ne andava da Spalato, non scacciato, non
vituperato, anzi accompagnato dal pianto e
dall’amore della popolazione” (da Oddone Talpo, op. cit. pag, 1172) E comandano gli ustascia, i fascisti croati, che fin dal primo momento lasciano capire che la presenza italiana verrà cancellata per sempre dalla Dalmazia. Un esempio è quello raccontato da Posar. Egli, poco dopo l’ingresso dei tedeschi a Spalato, entra in un bar e chiede in italiano un caffè, ma si reca alle Poste Centrali della città per inviare una cartolina ai familiari a Trieste per rassicurarli. L’impiegata allo sportello, dopo avere letto il testo in lingua italiana, aggredisce Posar urlandogli che l’Italia ormai non conta più nulla e di non conoscere nessuna Trieste, che la città è la slava Trst. Quasi contemporaneamente i filonazisti croati cercano di estorcere ai nostri connazionali l’allora astronomica somma di 24.000 lire per permettere loro di riesumare le salme delle vittime di San Lorenzo, mentre il 2 ottobre un aereo croato lancia dei manifestini indirizzati ai dalmati di etnia slava ai quali si chiede, anzi si ordina di ergersi come un sol uomo contro i “miserabili italiani, i traditori italiani”. Nei giorni successivi i giornali ustascia scriveranno articoli virulenti che sono
“ (..) un tremendo attacco
agli italiani, a base di insulti, di menzogne, di
calunnie (..)” (Oddone Talpo, op.cit. pag, 1373) e contengono violente minacce contro chi, tra gli slavi (ed è certo la maggior parte) protegge o almeno cerca di porgere un aiuto ai nostri connazionali. Quegli stessi italiani che tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre 1943 sono ormai alla fame e sono costretti ad affollare le code alle cucine economiche per riuscire a conquistare un piatto di minestra. L’insegnante Jole Topparini, collega di Posar, ricorda di avere cercato di acquistare delle castagne secche ma il negoziante croato rifiuta di vendergliele, perché italiana. E’ la fine amara della presenza italiana sulla costa orientale dell’Adriatico. Spalato italiana non esiste più. La maggior parte degli italiani cerca di abbandonare la città, con qualsiasi mezzo. Guido Posar lascerà Spalato il 20 novembre a bordo del vapore “Ugliano” insieme alla maggior parte dei ferrovieri italiani in servizio in città, ma ancora nel marzo 1944 in quella che ormai è Split sono rimaste alcune centinaia di nostri connazionali, ormai alla fame e di fatto emarginati dalle autorità ustascia. Il maresciallo Pacifico Pascali ha però lasciato la città già dai primi giorni dell’occupazione tedesca. Come migliaia di soldati e civili italiani sta cercando di raggiungere casa. La guerra per lui è finita, almeno così crede, ma in realtà è appena cominciata.
Oddone Talpo “Dalmazia, una cronaca per la storia”
vol. III, edito a cura dello Stato Maggiore
dell’Esercito,
Roma 1994. Guido Posar “Naufragio in Dalmazia 1941-1943” Ed. Monciatti, Trieste, 1956 |