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ADRIATICO

(la storia del maresciallo Pacifico Pascali)

Prima Parte: l’occupazione della Dalmazia, 1941-1943

 

 

Avvertenza: questo è il primo articolo di una trilogia destinata ad essere pubblicata nel corso del 2015 e  che, nelle intenzioni di chi scrive, vuole narrare attraverso il racconto delle vicende del maresciallo Pascali anche quelle delle regioni italiane e jugoslave sul confine orientale e sulle coste adriatiche.

Quando il maresciallo Pacifico Pascali sbarca a Spalato non ha la minima idea di dove stia andando a cacciarsi.

La città dalmata è stata occupata dalle truppe italiane nel corso dell’invasione della Jugoslavia avvenuta nell’aprile 1941 ed è stata “promossa” a provincia italiana, con l’instaurazione di un’amministrazione civile, con tutto quello che ne consegue: prefettura, provveditorato agli studi, questura. La Spalato già veneziana e dove sopravvive una minoranza etnica italiana, entra così a far parte della famiglia del Regno d’Italia ed Albania.

Già. Ci entra senza che alla popolazione di Spalato, per la maggior parte di etnia croata, venga chiesto un parere. Ad analizzarlo con occhi moderni è gravissimo e rappresenta uno sfregio ai diritti dei popoli, per la mentalità di una Potenza imperiale passabilmente democratica (all’epoca non è una contraddizione in termini) è una situazione che può essere risolta da concessioni all’etnia maggioritaria come autonomie più o meno larghe, per un regime dittatoriale come quello che reggeva l’Italia di allora invece gli slavi sono cittadini di serie B, allontanati da una qualsiasi posizione di rilievo.

Qualche autore ha scritto che se noi italiani avessimo vinto la battaglia navale di Lissa, avvenuta nel 1866 dinanzi a Spalato, la nostra amministrazione sarebbe stata accettata dagli slavi della Dalmazia che portavano ancora un buon ricordo del governo veneziano, nel 1918 sarebbe stata tollerata (anche se nella Spalato del 1920 erano avvenuti gravissimi incidenti anti italiani costati la vita ad un ufficiale della nostra Regia Marina) , ma nel 1941 ciò non poteva accadere, i dalmati di etnia slava non potevano accettare un dominio straniero.

E’ probabile che sia vero, anche se la Jugoslavia monarchica non aveva lasciato ricordi positivi  nei croati, non solo dalmati, ed è quindi possibile che con dei migliori rapporti con gli slavi la situazione potesse assestarsi in una neutralità più o meno benevola.

Un punto dal quale partire sarebbe un’efficiente amministrazione pubblica che possa far sentire i croati parte di qualcosa di importante ed inorgoglire gli italiani della Dalmazia, che hanno aspettato l’Italia dal 1861.

All’apparenza tutto incomincia con i migliori auspici. Tra il 1941 ed il 1943 il governatore della Dalmazia, il gerarca Giuseppe Bastianini, fa giungere in Dalmazia decine di migliaia di quintali di viveri, per un valore mensile di 13 milioni di lire del tempo (oltre otto milioni di euro attuali). Nelle nuove province manca un’organizzazione sanitaria degna di questo nome e le scuole sono quasi inesistenti. Il governo italiano istituisce nella regione 27 condotte mediche affidate ad ufficiali medici del Regio Esercito facendo addirittura giungere dalla Penisola numerose ostetriche e istituendo un servizio sanitario itinerante, su camion e motobarca, che effettua migliaia di visite. Vengono addirittura avviate la bonifica di 76.000 ettari di territorio e una riforma agraria (per quella italiana bisognerà aspettare il 1950) che nella primavera 1942 aveva già registrato le domande di 22.000 contadini slavi per l’accesso ai benefici di legge previsti. Per la scuola vengono reclutati oltre un migliaio di maestri, 531 dei quali italiani e nel 1941 oltre 260 studenti dalmati (211 dei quali croati) ricevono borse di studio per le università del Regno d’Italia.

 

Per rendere esecutiva ed efficiente questa politica ci sarebbe bisogno di funzionari pubblici seri, appassionati, efficienti, devoti al servizio della loro nuova comunità.

“Ci sarebbe”, appunto.

Forse sulla banchina del porto di Spalato il maresciallo Pascali ha incrociato Guido Posar, un professore liceale triestino che ha raggiunto la città dalmata allettato da una circolare ministeriale che decanta le ottime condizioni riservate agli insegnanti che vogliono raggiungere la Dalmazia.

Quello che scrive Posar – Giuliano, un uomo imbevuto da ideali patriottici e sicuramente fascista sino a Spalato, nel suo libro “Naufragio in Dalmazia”, è sconfortante e toglie qualsiasi illusione sul nostro dominio sull’altra sponda dell’Adriatico


"....in Dalmazia l'allora ministero dell'educazione nazionale avrebbe dovuto inviare insegnanti scelti con estrema cautela. Esso invece aprì le porte della Dalmazia a tutti, anche alla feccia della classe insegnante, come si apre l'ovile innanzi ad una confusa massa di pecore matte..."

"Il Governo avrebbe dovuto scegliere al microscopio tutti i suoi funzionari da inviare in quella terra ma in modo speciale agli insegnanti. Invece l'accesso alla Dalmazia fu spalancato a chiunque ne facesse richiesta... veramente sulle prime si era diffusa la voce che il ministero avrebbe dato l'assoluta preferenza agli insegnanti della Venezia Giulia (...) ma l'esiguo concorso dei giuliani e il bisogno urgente che si aveva di convogliare insegnanti in Dalmazia indusse il governo ad accettare ogni domanda. La grande massa degli insegnanti erano supplenti e venivano in Dalmazia appunto perchè loro si prometteva che, dopo tre anni di permanenza in quella terra, sarebbero stati assunti in ruolo. Quelli invece che lo erano già avevano la promessa che ogni anno di insegnamento sarebbe calcolato il doppio a tutti gli effetti della carriera. Molti vi giungevano spinti unicamente da spirito di avventura. Molti dal vantaggio delle indennità di missione che raddoppiava circa lo stipendio. Molti soltanto per evitare il grigioverde. Pochissimi per vero profondo sentimento di missione cioè in quanto terra stata a noi carpita (...) [per il Governo di allora] molto meglio sarebbe stato riagganciare la Dalmazia e convincerla a noi incominciando con l'inviarvi falangi di funzionari capaci, onesti, esemplari. Invece la Dalmazia divenne quasi una terra di colonizzazione, una meta per tutti gli sbandati, gli affamati...."

Posar racconta altri episodi grotteschi come quello, emblematico, di una maestra con quattro figli a carico, in dolce attesa di un quinto e con marito disoccupato sul groppone che raggiunge Spalato, attirata dalla speranza di ottenere il posto in ruolo, come i troppi docenti incapaci e maneggioni giunti in Dalmazia alla ricerca del posto fisso e del denaro facile.

Se questi erano gli insegnanti, come diavolo si può pretendere che la Polizia fosse diversa?

Sicuramente anche in questure e battaglioni erano state appese circolari come quelle che avevano attirato in Dalmazia Posar e la prolifica maestra, circolare alla quale anche il maresciallo Pacifico Pascali ha risposto. E come lui altri poliziotti.

 Non c’è dubbio che a finire in Dalmazia ci finiscano persone attirate dall’indennità , altri per spirito patriottico e di servizio, altri ancora per avventura cercando di sottrarsi al grigiore di qualche questura di provincia. Ci sono anche i giovani neoarruolati, appena usciti dalla Scuola Tecnica di Polizia di Caserta che hanno “pescato” il numero sbagliato ed infine i cattivi poliziotti posti di fronte a tre scelte: la galera, l’espulsione dal Corpo  (che automaticamente significa trovarsi in mezzo alla strada in attesa della più che probabile chiamata alle armi nel Regio Esercito) e il servire la Patria in Dalmazia.

Ho cercato qualche informazione in più sul maresciallo Pascali, ma nulla fa pensare che sia un avventuriero o che sia stato allontanato dalla propria questura per motivi oscuri. Molto più probabilmente c’entra il fatto che Pascali è un padre di famiglia e che quei soldi dell’indennità di missione fanno maledettamente comodo.

E’ così che Pacifico Pascali decide il proprio destino.

Una volta preso possesso del proprio ufficio, organizzato da agenti provenienti come lui dal Regno e da ex gendarmi ed ex poliziotti jugoslavi collaborazionisti, inizia la propria missione oltremare. Scartoffie durante il canonico orario d’ufficio, qualche ordine pubblico ogni tanto, durante le cerimonie nazionali o del regime e qualche pattuglia a piedi.

Come sa bene chi conosce quella costa adriatica, Spalato è una bellissima città, il classico esempio dei centri che Venezia aveva disseminato durante il proprio dominio coloniale. Avrà gustato il pesce in qualche trattoria o in qualche konoba sul lungomare cittadino, concludendo la serata ascoltando il concerto della banda dell’esercito in piazza della Signoria Veneta o andando al cinema ospitato nel comando militare di Spalato e, prima di andare a dormire scrivendo una lettera alla moglie. A dirla così non sembra la vita di un conquistatore, ma quella di un tranquillo burocrate di provincia.

Ma le cose precipitano, con una velocità sconcertante.

Non è comunque giusto scaricare la responsabilità sul materiale umano. Queste partono dall’alto: se “i migliori auspici” di cui abbiamo parlato all’inizio forse mirano a conquistare cuori e menti degli slavi, le azioni del governo locale e nazionale contribuiscono a fare perdere prestigio e credibilità: già il  10 giugno 1941 Mussolini dichiara che i croati e i serbi sono non nazionalità, e se insistono a dichiararsi tali diverranno nemici e dovranno andarsene”, il 19 luglio 1941 il governo italiano scioglie tutte le associazioni sportive e culturali croate, provocando i malumori della comunità slava, oltre al divide et impera attuato dagli italiani tra serbi e croati, esacerbando la contrapposizione tra le due etnie. Ma quello che è peggio sono le continue prevaricazioni da parte di alcuni nostri connazionali, con il tacito assenso e a volte l’incoraggiamento delle autorità.

Autorità che sono divise in clamorose liti tra militari e civili, liti che vengono osservate con stupore dai dalmati di entrambe le etnie e che contribuiscono a far precipitare la situazione in un marasma incredibile e sconsolante.

Due anni dopo, nell’estate del 1943 quando la situazione è ormai precipitata in un’atroce orgia di sangue una lettera anonima [riportata in  “Dalmazia- una cronaca per la Storia” vol III dello storico zaratino Oddone Talpo], raggiunge il comando del XVIII Corpo d’Armata.

A scriverla è un anonimo componente della minoranza italiana di Spalato, che pur  qualificandosi  per simpatizzante del partito fascista, descrive la situazione della città e ciò che racconta fa davvero male.

L’Anonimo racconta che nei primi sei mesi del 1941, quando l’ordine pubblico era affidato all’esercito la situazione era tranquilla e non c’era bisogno di coprifuoco serale, le relazioni tra militari e civili si stavano evolvendo positivamente, “non vengono compiuti attentati, slavi della Croazia non hanno alcun problema a frequentare italiani, i giovani affollano le strade cittadine senza timore e gli slavi osservano i nostri connazionali con un atteggiamento “se non proprio devoto o addirittura benevolo, pure pacifico e doveroso, di riserva se volete ma mai ostile!” . Nell’estate del 1943 invece la situazione è radicalmente mutata perché anche un osservatore distratto può registrare l’ostilità feroce nel confronto degli italiani, con un atteggiamento che nella migliore delle ipotesi è di delusione di fronte ad una situazione dove il coprifuoco è severissimo mentre i giovani spalatini, maschi e femmine, sono fuggiti sulle montagne, come se si trovassero di fronte alla calata dei barbari.

L’Anonimo vede l’origine della catastrofe in un episodio, probabilmente avvenuto negli ultimi mesi del 1941, del quale egli fu testimone quando:

“… un manipolo dei Fasci combattenti passava per il Corso Italia in grande esposizione dimostrativa. La gente fiutando il pericolo, si scansava o si rifugiava nei portoni più vicini. Un giovane pacifico, non comprendendo cosa accadeva si fermò dinanzi ad un portone, dove uno dei fascisti del manipolo col calcio del fucile talmente assaliva il giovane inerme, rompendogli alcuni denti, da rovinargli l’intera faccia…” l’assurda aggressione scatena il panico tra i civili e solo un ufficiale italiano reagisce tacciando di viltà il milite fascista.

L’Anonimo riferisce di ignorare se questi sia stato punito o addirittura lodato. Quello che però l’Anonimo sa benissimo è che da quel momento numerosi giovani spalatini fuggono in montagna, arruolandosi nel nascente movimento partigiano.

ma il racconto non finisce qui. L’Anonimo è esplicito nel denunciare che la reazione italiana a quella che egli chiama pudicamente “emigrazione”  della comunità slava ma che di fatto è sia una fuga che un ingresso in clandestinità, è quella più sbagliata: l’uso, o meglio, l’abuso della forza. E qui arriviamo ad un passaggio della lettera che è un autentico pugno nello stomaco per un moderno poliziotto italiano.

Alla questura di Spalato s’installarono funzionari tutt’altro che capaci per un compito sì gravoso” i quali lasciano la gestione della polizia politica nelle “mani ferree” di agenti e marescialli di P.S. coordinati dal maresciallo F. [ndr: nella lettera e nel libro di Posar viene riportato il cognome per esteso. Io ho preferito limitarmi all’iniziale per rispetto ai discendenti di quest’ultimo che forse ne ignorano il torbido passato] . E’ il maresciallo F. a guidare le torture ai danni dei prigionieri nei sotterranei della questura di Via Salona dove vige “il sistema dell’inquisizione medievale, con terrore e martirii di ogni genere” e nella quale egli spadroneggia come un sovrano assoluto, grazie all’incapacità o peggio, al disinteresse dei funzionari definiti inetti o ignari delle condizioni politiche reali”, esercitando il proprio arbitrario potere con una ferocia tale che l’Anonimo si chiede con amaro sarcasmo se per caso F. non sia un reclutatore della Resistenza, dato che l’Anonimo è certo che senza il regime di terrore di via Salona e le brutalità dei fascisti più del 95% dei  fuggiaschi sarebbe rimasto a Spalato.

L’Anonimo conclude con amarezza la sua lettera, implorando il comandante del XVIII Corpo di intervenire per cambiare le cose prima che sia troppo tardi.  Qualunque sia la speranza dell’Anonimo non si può più tornare indietro. La violenza ha scavato un solco davvero pesante tra l’etnia slava e quella italiana.

Una dimostrazione di quale sia il ruolo della questura, o meglio del diabolico maresciallo F., nella brutalità della Spalato occupata  è in un episodio che non si sa se definire grottesco o vile, avvenuto nel marzo 1943, descritto sia da un rapporto ufficiale del nuovo governatore della Dalmazia Giunta che nel libro di Guido Posar.

Un giorno due istruttori della G.I.L. , la Gioventù Italiana del Littorio, di Spalato per coprire le proprie ruberie in previsione dell’ispezione di un gerarca proveniente da Roma decidono di provocare un piccolo incendio nei locali dell’organizzazione, situata in una scuola tecnica maschile. Ma un incendio doloso presuppone dei colpevoli e per “coprire” le proprie tracce  due predoni decidono di organizzare una “rappresaglia”. Con il pretesto di una lezione straordinaria di educazione fisica fa riunire nella palestra dell’istituto gli studenti, i quali però, invece di attrezzi ginnici si trovano di fronte ai vertici del Fascio e della GIL di Spalato ed al gongolante maresciallo F. i quali, dopo avere accusato gli innocenti ragazzini di avere provocato l’incendio, li “selezionano” e sottopongono gli estratti a sorte ad una feroce bastonatura.

La viltà di quel gesto provoca lo sdegno della popolazione spalatina. Sul tavolo del governatore Giunta arrivano lettere indignate da parte dei familiari dei ragazzi picchiati, ma tra costoro c’è qualcuno che decide di vendicarsi.

Pochi giorni dopo la “rappresaglia” Giovanni Savo, il giovane vice federale del Fascio di Spalato viene ucciso da uno studente di diciassette anni che gli spara alle spalle e che prima di essere catturato riesce ad uccidere un soldato italiano che sta cercando di disarmarlo e ferisce gravemente un secondo giovane militare.

Nel suo rapporto al segretario nazionale del PNF il governatore Giunta definisce Giovanni Savo estraneo al pestaggio degli studenti e una “perla di ragazzo”. Sulla prima cosa non abbiamo elementi per giudicare mentre sulla seconda siamo molto perplessi.

Il 10 giugno 1942 infatti la “perla di ragazzo” è alla testa di una manifestazione di militanti fascisti, del Regno ma anche di Spalato, che irrompe nella Sinagoga della città.

Luciano Morpurgo, esponente della comunità ebraica spalatina descrive con orrore  l’incursione che è di fatto un piccolo pogrom, forse l’unico avvenuto nel nostro Paese dopo il 1848.

Morpurgo è uno dei tanti ebrei italiani imbevuto di ideali risorgimentali che nel 1918 ha sperato nell’annessione della Dalmazia al Regno d’Italia, rimanendo deluso dai successivi fallimenti della nostra politica nell’Adriatico ed è rimasto ancora di più deluso ed umiliato quando dopo l’occupazione le nostre autorità instaurano anche in Dalmazia l’abominio delle leggi razziali. Quello che narra nel suo pamphlet scritto nel dopoguerra fa male.

Accade tutto intorno alle ore 19,00 del 10 giugno 1942, nel secondo anniversario dell’ingresso dell’Italia in guerra quando un gruppo di camicie nere della Milizia fascista, per la maggior parte provenienti dalla Toscana, e guidati da Giovanni “Perladiragazzo” Savo irrompe nell’antico palazzo che ospita la sinagoga cittadina, picchiando i fedeli con bastoni e frustini, distruggendo gli arredi sacri e rubando a man bassa  argenterie, mantelli e stoffe preziose e libri di valore inestimabile, devastando l’interno del Tempio compreso il piccolo museo della Comunità e gettando le cose preziose dalle finestre, che vengono raccolte dalle prostitute amanti delle camicie nere e da balordi di piccolo cabotaggio, che tutto d’un tratto si sono offerti volontari nella lotta  contro i Savi Anziani di Sion. Nessuno interviene, anzi secondo quanto riportano i testimoni che parlano con Morpurgo, a partecipare lietamente al saccheggio vi sono anche i carabinieri (altre fonti parlano esplicitamente di agenti di PS come sodali dei predoni) “o che assistessero inerti all’opera nefanda di questi banditi” . Morpurgo scrive incredulo che su questa vicenda bisognerà indagare in nome “.. d’Italia, di quell’Italia che a onta di tutto è viva nel mio cuore e nel cuore di tutta la mia famiglia, io spero che ciò non sia vero; io spero che solo dei forsennati si sieno resi colpevoli di questi infami fatti, che solo possono verificarsi in paesi civili, non nell’Italia nostra, maestra alle genti, madre di civiltà, che ha sempre rispettato tutti i culti e le religioni!”.

Poi, mentre i libri sacri vengono bruciati e viene devastata la libreria Morpurgo, che dal 1856 è stata faro di italianità in Dalmazia, la “Perladiragazzo” indossa i paramenti del rabbino e recita una oscena parodia di una cerimonia sacra ebraica dinanzi al rogo dei libri in piazza della Signoria Veneta per la gioia di una turba osannante e la costernazione degli spalatini onesti di entrambe le etnie, i quali non avrebbero mai creduto di assistere ad una scena simile, ad un pogrom che è sempre stato estraneo alla cultura dalmata.

Quando poche settimane dopo Savo viene mortalmente ferito da un adolescente croato, morendo dopo una atroce agonia, Morpurgo si chiede con amarezza se nei suoi lunghi giorni di sofferenza egli abbia ricordato le vittime dei suoi pestaggi nelle prigioni cittadine (“che andava a bastonare sadicamente ogni sera nelle carceri”) o il male arrecato ai suoi concittadini. Si tratta certo di domande retoriche, come sono domande retoriche quelle di chiedersi quanto il piccolo pogrom di Spalato abbia influito nel sospetto degli slavi verso gli italiani..

E pure da chiedersi quanto abbia influito da parte italiana la creazione di unità collaborazioniste come le MVAC  (Milizie Volontarie Anticomuniste), delle vere bande di contro guerriglia,  formate da volontari serbi e croati che combattono insieme alle Regie Forze Armate contro la guerriglia slava.  Non si tratta di una gang di serial killer o dell’equivalente italiano delle divisioni di slavi arruolati nelle SS tedesche, ma di  croati e serbi anti comunisti (alcuni addirittura ex partigiani) che hanno deciso di schierarsi dalla nostra parte per combattere i propri connazionali comunisti, nel marasma provocato dal crollo della Prima Jugoslavia. Molti di loro combatteranno valorosamente al fianco dei nostri soldati. Ancora negli anni ’80 qualche reduce slavo, citato dal giornalista italiano Antonio Pitamitz,  dirà di essersi arruolato nelle MVAC perché indignato dal fatto che al mondo ci fosse gente che mangiava cinque pasti al giorno e altri nessuno, riprendendo con questo un vecchio motivo della propaganda fascista.

Le MVAC sono però una frattura nella stessa etnia slava, una frattura che si farà sentire negli anni successivi. L’atroce verità è che insieme ai tedeschi abbiamo scatenato una guerra civile strisciante che era già in nuce prima dell’aprile 1941 e che al termine del secondo conflitto avrà provocato quasi un milione di morti in tutta la Jugoslavia.

Una guerra orribile, spaventosa, che causerà una spaccatura destinata a deflagrare ancora con estrema violenza nella nuova guerra civile che dilanierà la Seconda Jugoslavia negli anni 1990 e che oggi, acquattata nell’ombra, è in attesa di riesplodere.

Fuori Spalato la guerriglia è feroce. Gli italiani perdono centinaia di soldati e di marinai combattendo sulle pietraie dalmate contro i partigiani jugoslavi. E’ l’orrore quotidiano di una guerra sporca, di un vero e proprio Vietnam italiano, nel quale buoni e cattivi non esistono e nel quale il sangue chiama altro sangue.

Il 12 novembre 1942 17 marinai e quattro genieri dell’esercito inviati a riparare una linea telegrafica interrotta nei pressi del villaggio di Capocesto, nei pressi di Sebenico,  vengono attaccati dai partigiani e chi non ha la fortuna di venire ucciso muore dopo terribili sevizie. La rappresaglia italiana è feroce ed indiscriminata. Come scriverà nel proprio diario, pubblicato nel dicembre 1987 dalla rivista Storia Contemporanea il futuro ambasciatore Egidio Ortona, all’epoca nello staff del governatore della Dalmazia Bastianini

16 novembre: stasera pessima notizia dalla Dalmazia, la rappresaglia per l' attacco contro i nostri marinai e' stata durissima. Anche cannoneggiamento dal mare sul paese di Capocesto, evidentemente ordinato dall' Ammiraglio. Azione quindi riuscita, ma che nei risultati e negli effetti ha esorbitato ed ecceduto e che ci alienera' molte simpatie. 21 novembre: il Governatore riceve una risentita lettera del vescovo di Sebenico sui fatti di Capocesto e sul nostro atteggiamento verso le popolazioni. (..). 28 novembre: abbiamo le prime notizie di fonte civile sul bombardamento di Capocesto: 4 milioni di danni per case distrutte, popolazione terrorizzata, ondeggiante, 60 morti, 150 bambini orfani o abbandonati dai genitori, miseria, tutto distrutto. La nostra sciocca rodomontata ha totalmente compromesso il nostro prestigio in una zona fedele. Questo e' il risultato".

Il 14 gennaio  1943 un carabiniere viene ucciso a Gacelesi, a nord di Spalato. Il 16 i carabinieri ed i militi inviati a raccogliere la salma cadono a loro volta in un agguato che costa la vita a 16 uomini dell’arma e tre militi fascisti.

Il 2 marzo un plotone di soldati della divisione Bergamo inviati a proteggere quattro (4!) operai intenti a riparare un insignificante ponticello cadono in un agguato che costa la vita a 19 fanti, mentre altri sei militari sono dispersi. L’immediata rappresaglia, decisa dal prefetto di Spalato, costa la vita a 19 prigionieri.

Il 10 marzo un gruppo di partigiani comunisti in uniforme uccidono sull’isola di Meleda un contadino e rapiscono una suora ed un altro civile. La religiosa verrà trovata impiccata e il civile ucciso a pugnalate. La rappresaglia italiana per l’omicidio dei tre (tutti di etnia croata) è l’immediata fucilazione di sei detenuti politici.

Sono solo tre episodi, ma sono sintomatici di una situazione che nel corso dei ventinove mesi di occupazione italiana è degenerata nell’orrore e nella quale è difficile distinguere il torto e la ragione, a parte quella degli innocenti travolti dall’orgia di sangue.

Che cosa sa il maresciallo Pascali, al sicuro nei suoi uffici di Spalato?  Sicuramente tutto.

Certo conosce la storia del massacro del prefetto di Zara e della sua scorta, avvenuto nel maggio del 1942. Quando la rivolta slava ha cominciato ad estendersi in tutta la  Dalmazia il prefetto Vezio Orazi, un fascista di provata fede al quale non difetta certo il coraggio ma il senso di opportunità forse sì, ha iniziato a percorrere in lungo e in largo la regione, per ispezionare i posti avanzati delle forze armate e di polizia. Il 26 maggio 1942 ha deciso di visitare il presidio di Ervenico, a qualche decina di chilometri da Zara, nonostante i tentativi di dissuasione da parte del suo staff e qui è caduto in un agguato dei partigiani jugoslavi, che hanno ucciso lui e una mezza dozzina di italiani tra i quali tre militari intervenuti in suo soccorso.

Nel corso del 1942 ed il 1943  almeno cinque agenti vengono assassinati. Tra questi la guardia di PS Luigi Giuliana, rapito da un autobus fermato poco fuori città ad un posto di blocco dei partigiani jugoslavi e il cui corpo non è mai stato ritrovato. D’accordo, almeno altri due vengono uccisi in sparatorie, ma sono la morte e la scomparsa degli altri a inquietare.

Anche chi come il maresciallo Pascali non si compromette con la repressione e cerca di non udire le urla dei torturati nei sotterranei non può fare a meno di chiedersi se ci sia qualche doppiogiochista in questura, forse tra gli ex poliziotti ed ex gendarmi jugoslavi o forse addirittura tra gli stessi agenti di polizia italiani allontanati dal Regno.

Nel Dopoguerra agenti, sottufficiali e funzionari di questure come Trieste, Gorizia e soprattutto Fiume, verranno perseguitati da pesanti sospetti sulle loro eventuali compromissioni con la resistenza jugoslava, e si ritroveranno con la carriera rovinata. Si tratta di poliziotti “colpevoli” di avere sposato prima della guerra delle donne slave sospettate di essere conniventi con i comunisti ma soprattutto di essere sopravvissuti quando i loro colleghi sono stati massacrati prima dai tedeschi e poi dagli jugoslavi. Sospetti, abbiamo detto, ma che anche a noi osservatori esterni a distanza di settant’anni dai fatti sollevano gli stessi dubbi dei funzionari che negli anni ’40 e ’50 riesaminarono le loro carriere.

Anche a Spalato accadde così? Anche nella città dalmata ci furono degli agenti, dei sottufficiali o dei funzionari che si legarono ai partigiani jugoslavi per comunanza di ideologia? È probabile. Come abbiamo detto più sopra, la creazione di nuovi uffici di polizia nei territori occupati permise a molte questure di liberarsi di elementi indesiderati, tra i quali certo più di qualche elemento politicamente “sospetto” ed a Spalato ve ne sono tracce, come lo strano arruolamento nell’esercito popolare jugoslavo di un giovane agente italiano destinato a cadere in Bosnia nel 1944, combattendo contro i nazisti.

Nel giugno 1943 i militari dell’ufficio informazioni del Corpo d’Armata arrestano a Zara ed in altre località della Dalmazia ben 132 persone coinvolte a vario titolo nella resistenza comunista, ed a cui capo ci sono tre militanti di etnia italiana in contatto con una organizzazione comunista nella Penisola italiana, strutturati in modo militarmente e politicamente impeccabile anche dal punto di vista del reclutamento, dato che aveva escogitato un sofisticato sistema a compartimenti stagni per selezionare, indottrinare ed infine arruolare le potenziali reclute .  Quanti furono gli italiani arruolati in questo modo?

Ma sono proprio questi arresti a provocare le ire del prefetto di Zara che vede intaccata la propria autorità nell’operazione condotta dai militari in quello che dovrebbe essere territorio italiano e non d’occupazione e per rivalsa il prefetto di Zara fa arrestare altre 40 persone. E’ una specie di gara tra autorità militari e civili, fatta sulla pelle degli abitanti dei territori occupati e degli stessi agenti e militari. Nell’estate del 1943 ad indagare sulla resistenza jugoslava a Spalato, sotto gli occhi divertiti dei tedeschi, degli ustascia croati e dei cetnici serbi e quelli rassegnati degli italiani vi sono i carabinieri del Gruppo di Spalato, la regia Questura, una struttura interna all’interno della Federazione dei Fasci di Spalato, l’Ufficio Politico Investigativo della Milizia Fascista, la Milizia Portuaria, i Centri di Controspionaggio di Esercito e Marina, le squadre investigative dei Carabinieri di varie unità affiancate al Regio Esercito e lo stesso Ufficio “I” del Corpo d’Armata (… vi siete persi anche voi?), strutture troppo spesso in guerra tra di loro. Vi sono addirittura tre carceri, quelle giudiziarie di San Rocco, quelle di Via Salona affidate alla Polizia e dove regna incontrastato il maresciallo F.  ed infine quelle affidate all’Arma per conto dell’Esercito.

E’ il caos assoluto che aumenta le rivalità tra militari e civili emerse già dai primi mesi dell’occupazione.

E’ emblematica a questo proposito la storia della presunta tangente di 20.000 lire che secondo una voce raccolta dal Centro C.S. (Controspionaggio) di Spalato, il prefetto di Spalato Paolo Zerbino avrebbe ricevuto per liberare un detenuto serbo.

Sgombriamo il campo da ogni equivoco: la voce è falsa, il detenuto era stato liberato dagli stessi militari per poter arrivare attraverso di lui al resto dei componenti della sua organizzazione. La storia della tangente però continua a circolare e “per correttezza” i militari ne informano lo stesso prefetto che si scatena in preda all’ira. Accusa il maggiore dei Carabinieri dell’Ufficio “I” della II Armata di avere messo in giro la voce della mazzetta, fa arrestare tutti i confidenti del Centro C.S. e, giusto per gradire, fa bastonare a sangue l’informatore che aveva portato la voce al Centro.

Tutto questo, mentre i partigiani jugoslavi continuano la loro attività a Spalato e nel resto della Dalmazia, mentre anche il comandante della II Armata sfugge ad un attentato e la zona di Sebenico, a nord di Spalato, è virtualmente in mano alla resistenza.

 Il 25 luglio 1943 giunge la notizia della caduta di Mussolini e la sua sostituzione con il maresciallo Badoglio.

Non c’è in Dalmazia la stessa atmosfera elettrica del resto d’Italia. I ritratti di Mussolini scompaiono dagli uffici pubblici e la Milizia getta i fascetti del bavero per prendere le stellette, ma nulla di più.

Il professor Posar scrive che per alcuni giorni egli e la maggior parte dei civili italiani di Spalato continuarono per giorni ad indossare all’occhiello la “cimice” il distintivo del PNF, soprattutto per lo sfondo tricolore che “dimostrava” la loro nazionalità. La reazione dei nostri militari , compresi i poliziotti, è di totale incredulità. Si comprende di essere soli, isolati in terra straniera e si guarda preoccupati al futuro.

Il giorno successivo il Comando Supremo delle Forze Armate proclama che i territori jugoslavi annessi all’Italia sono d’ora in poi da considerarsi zona d’operazioni. La principale autorità è a questo punto quella militare. I prefetti di Zara e Spalato che nei due anni precedenti sono stati protagonisti di grottesche e clamorose liti con i militari vengono rimpatriati.

I tedeschi si rimettono subito dallo shock della deposizione di Mussolini ed iniziano a studiare i progetti per l’invasione della Dalmazia. Il governo di Zagabria e gli ustascia croati si preparano al momento dell’occupazione e addirittura stilano le liste dei dalmato-croati destinati ad assumere i ruoli amministrativi e politici a Spalato.

I comunisti jugoslavi osservano esultanti l’evoluzione della crisi italiana, considerando il crollo del fascismo la sconfitta del loro nemico ideologico. Iniziano ad apparire in tutta la Dalmazia dei volantini che invitano i soldati e addirittura le camicie nere a disertare per unirsi alla Resistenza jugoslava mentre nei giorni successivi alla caduta di Mussolini i comunisti cercano di trovare un accordo con i cetnici serbi e, come commenteranno i servizi segreti italiani con grande apprensione, prendono sempre più piede nelle campagne dalmate.

Sicuramente anche il maresciallo Pascali legge qualcuno di quei volantini ed osserva preoccupato le divise tedesche ed ustascia che appaiono sempre più spesso in città e, come la maggior parte degli italiani e ascolta i discorsi sempre più deprimenti dei colleghi dell’Ufficio Politico della Questura che gli descrivono un quadro sempre più tetro della Dalmazia. Probabilmente è in quella bollente estate che Pascali comprende di essere prigioniero di Spalato.

La situazione in città si fa infatti sempre più difficile. Il 18 agosto il leader della comunità serba spalatina, che ha dichiarato la propria neutralità nei confronti del nostro esercito viene mortalmente ferito a pugnalate. Negli ultimi giorni di agosto i detenuti “politici” ancor rinchiusi nel carcere di San Rocco a Spalato fanno lo sciopero della fame per chiedere che anche a loro venga riconosciuta l’amnistia concessa agli altri detenuti politici nel resto d’Italia. All’esterno del carcere una dimostrazione di diverse centinaia di civili, per la maggioranza donne, che chiede la liberazione dei prigionieri viene dispersa a fucilate dai carabinieri. Muore un dimostrante ed altri dieci restano feriti.

A Spalato si comprende che la città verrà presto abbandonata. La caduta del fascismo è soltanto il preludio a qualcosa di peggio. Nella seconda metà d’agosto si comincia chiaramente a parlare di esodo della comunità italiana della città, formata da più di duemila persone tra componenti della nostra etnia e funzionari giunti dal Regno. Il primo a parlarne chiaramente  è il provveditore agli studi Giovanni Soglian il quale in una riunione con i presidi ed i direttori scolastici rivela che i militari, di fronte al progressivo aggravarsi della situazione politica e militare e ai timori per i rifornimenti ai civili, vogliono evacuare la comunità italiana, dando precedenza a donne e bambini.

In agosto sessanta famiglie italiane lasceranno Spalato. E’ la prima avvisaglia dell’Esodo e della fine della millenaria comunità italiana della sponda orientale adriatica.

Chissà se c’è anche il maresciallo Pascali a sorvegliare le operazioni di imbarco dei civili sulla nave diretta verso la Penisola e chissà quali sono i suoi pensieri mentre vede scomparire la nave oltre l’orizzonte, verso l’Italia così vicina e insieme così irraggiungibile.

Nella seconda metà del mese di agosto le truppe italiane iniziano il lento ripiegamento dai territori occupati, in accordo con i sempre più sospettosi tedeschi. I primi a venire dismessi dai nostri soldati sono tre presidi dalmati, a nord di Spalato,  prontamente occupati dalla Wehrmacht.

Nel frattempo le nostre truppe continuano a scontrarsi con i partigiani. E’ nell’isola di Brazzà, dinanzi a Spalato, che accade un fatto clamoroso. Il 5 agosto durante una festa nel villaggio di Bol i partigiani catturano l’intero presidio italiano, composto da una settantina di alpini, cinque carabinieri che ingenuamente si erano mescolati alla folla. I partigiani riescono a svaligiare l’arsenale della caserma prima che gli italiani riescano a reagire. Nello scontro muoiono tre nostri militari e sei militanti dell’EPLJ.

Ma è ciò che accade dopo che ha dell’incredibile, e lo descrive un documento dei Carabinieri di Sebenico citato dallo storico Oddone Talpo nel III Volume della sua opera: a seguito dello smacco di Bol appena due giorni dopo si svolge di fronte al Tribunale Militare un processo che condanna 27 soldati a morte per essersi sbandati durante il combattimento ed un altro per resa e aiuto al nemico ed altri 21 a pesanti pene detentive. Il documento citato è inequivocabile quando dice espressamente che “tra i fucilati sono tre carabinieri reali (..)”.

Tra i fucilati. Le condanne sono state quindi eseguite immediatamente, allo scopo di impedire che simili fatti possano ripetersi e, perdonate il cinismo “per incoraggiare” gli altri soldati.

Ma l’atroce Vietnam dalmata non è terminato. Il 16 agosto un commando di partigiani cattura sette marinai italiani, di presidio ad una stazione radio sull’isola di Lissa. I marinai vengono liberati quasi subito, mentre le armi e le apparecchiature vengono sottratte.

Il comando militare italiano della Divisione “Bergamo” reagisce in modo durissimo. Scatta il blocco dell’isola, mentre cinquanta civili vengono presi in ostaggio e viene lanciato un ultimatum ai partigiani: se entro 48 ore non verranno riconsegnate armi e radio gli ostaggi verranno fucilati per rappresaglia.

Il vescovo di Lissa invia un disperato telegramma al Re Vittorio Emanuele III, implorando la revoca dell’ordine. E’ tutto inutile: 20 innocenti verranno fucilati alla scadenza dell’ultimatum.

E’ in questa atmosfera cupa e carica di violenza e di odio che il maresciallo Pacifico Pascali ascolta la radio.

Lo immagino mentre discute della situazione sempre più tesa con alcuni  alla mensa della questura di Spalato, di fronte alle stoviglie acciottolate sporche di rimasugli di cibo, mentre l’aria è appestata dal fumo delle pestilenziali sigarette “Macedonia”.

“Come riusciremo a tornare a casa?” “Ma allora è vero che l’esercito sposterà il comando del Corpo d’Armata da Spalato! “ “Ma tu non hai una storia con una maestra? Ma è vero che evacueranno l’intero corpo docente?” “No, noi siamo poliziotti. Noi verremo evacuati quando l’ultimo civile avrà lasciato la città”.

Ad un tratto uno dei poliziotti nella mensa esclama “Fate silenzio! Shhhh!!!” ed alza la manopola del volume della grossa radio posata su una mensola.

Nella mensa fattasi improvvisamente silenziosa, risuona  la voce del Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio

“Il governo italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria….”

Sono le 20,45 dell’8 settembre 1943.

 

FINE PRIMA PARTE

Fonti principali ed opere consultate.

Oddone Talpo “Dalmazia, una cronaca per la storia”  vol. II e III, editi a cura dello Stato Maggiore dell’Esercito, 1990 e 1994.

Guido Posar “Naufragio in Dalmazia 1941-1943” Ed. Monciatti, Trieste, 1956

Luciano Morpurgo “Caccia all’uomo!” Casa Editrice Dalmazia S.A. di Luciano Morpurgo, roma 1946. Ampi estratti disponibili su http://www.fondazionevalenzi.it/public/doc/Leggi_razziali_e_Luciano_Morpurgo.pdf

“Storia Illustrata” settembre 1986

“Storia Contemporanea” dicembre 1987

Per la redazione di Cadutipolizia Fabrizio Gregorutti