UN UOMO COMUNE
(il vicequestore
Giuseppe Peri, Trapani 1976-82)
di Fabrizio
Gregorutti
Quando abbiamo letto l’amara storia del dottor
Giuseppe Peri, dirigente del commissariato di
Alcamo nella seconda metà degli anni ’70, la cosa
che ci ha colpito è la figura di quest’uomo comune
il quale, se ascoltato, poteva cambiare la storia
italiana degli ultimi quarant’anni.
Nel 1976 il vicequestore Peri ha cinquant’anni e
da circa un anno guida il Commissariato di P.S. di
Alcamo, una cittadina del trapanese a una
cinquantina chilometri dal capoluogo ed
altrettanti da Palermo.
Palermitano, sposato, due figli, in Polizia da
vent’anni, quasi tutti trascorsi a Trapani, Peri
ha attraversato una carriera normale rischiarata
da qualche encomio in riconoscimento di alcune
brillanti operazioni e dalla cittadinanza onoraria
di Poggioreale, la cittadina del Belice rasa al
suolo dal terremoto del 1968, nella quale il
dottor Peri, dirigente della Squadra Mobile di
Trapani, si è distinto per l’abnegazione con la
quale ha guidato i soccorsi ai terremotati.
Una carriera come quella di tanti poliziotti
quindi, quella di un uomo dello Stato serio e
coscienzioso anche se fino a quel momento non è
mai stato considerato un segugio.
Almeno sino a quel 18 novembre 1976 quando il
dottor Giuseppe Peri pone la sua firma ad un
rapporto diretto all’autorità giudiziaria. Ne
seguiranno altri, sino a quello clamoroso del 22
agosto 1977.
Quel giorno la sua vita cambia per sempre.
Il vicequestore Peri ha iniziato ad indagare sul
sequestro di Luigi Corleo, scomparso nel 1975 e
mai più ritornato a casa. Non si tratta di un
semplice sequestro di persona, come ne accadevano
a decine nell’Italia di allora. Corleo è il
suocero di Nino Salvo che insieme al cugino
Ignazio è il potentissimo esattore delle tasse per
la Sicilia, due uomini chiacchieratissimi e in
odore di mafia tanto da venire imputati al
maxiprocesso di Palermo (Nino morì nel 1986, prima
della sentenza, mentre Ignazio, condannato per
associazione mafiosa, venne ucciso in un agguato
nel 1992).
Peri, prima ad Alcamo poi alla squadra di PG della
procura di Marsala indagando sul sequestro Corleo
ha scoperto i collegamenti tra quello ed altri tre
sequestri, due dei quali avvenuti al di fuori
della Sicilia e lì ed è riuscito, forse anche
grazie all’aiuto di un informatore di cui non si
saprà mai il nome, a scoprire l’esistenza di
“una potente organizzazione dedita alla
consumazione dei sequestri di persona, con
richiesta di altissimi riscatti per fini eversivi
(…). I mandanti dei sequestri vanno ricercati
negli ambienti politici delle trame nere e in
ambienti insospettabili; questa organizzazione si
è servita e si serve delle non meno potenti
organizzazioni mafiose siciliane e calabresi (…).
Una centrale operativa di cui fanno parte
individui al di sopra di ogni sospetto, inseriti
nell’apparato statale ai vari livelli (…)
sequestri di persona, attentati, omicidi, tutto fa
parte di un’ identica strategia intesa a
determinare il caos scardinando i poteri di difesa
dello Stato al fine di instaurare nuove condizioni
di potere e dominio…”.
Arrivano le prime telefonate con cui gli si
“consiglia” di mollare l’inchiesta, qualcuno
nottetempo entra nell’ufficio corpi di reato del
tribunale allo scopo di fare sparire le prove che
Giuseppe Peri sta accumulando per l’inchiesta, ma
il vicequestore non molla.
Peri, attraverso la confessione di un pregiudicato
arrestato a Taranto per uno dei sequestri scopre
che
“…La
strategia della tensione decisa a Roma nel marzo o
aprile del 1975 dai suddetti gruppi eversivi con
la programmazione di quattro sequestri di persona
che sono da ritenere i suddetti, tre di essi
consumati nel mese di luglio del 1975, a distanza
di pochi giorni l’uno dall’altro — 1°, 17 e 23
luglio — e che culmina nel sequestro del M L, a
Gallipoli, il 23 luglio, è preceduta alcuni mesi
prima, da un’altra strategia di tensione
altrettanto finalizzata a creare sgomento, caos
per mettere in dubbio la credibilità degli Organi
dello Stato preposti a tutelare e garantire la
sicurezza pubblica e per scardinare le Istituzioni
democratiche….”
Con un fiuto investigativo che molti prima forse
non gli riconoscevano ha ricostruito il percorso
delle banconote dei riscatti, trovate in possesso
di mafiosi, criminali comuni e neofascisti, ha
scoperto che alcune armi e munizioni rinvenute sul
luogo dei sequestri e in possesso di criminali
provengono da arsenali “ufficiali”, ha scoperto
che in un campo paramilitare nei pressi di Agrigento
nel 1972 si è addestrato anche il terrorista
neofascista Pierluigi Concutelli, assassino del
magistrato Vittorio Occorsio, ha ricostruito il
clima di terrore che ha sconvolto Alcamo in quegli
anni, dopo l’omicidio di due politici locali e
soprattutto, di due giovani carabinieri,
l’appuntato Salvatore Falcetta e il carabiniere
Carmine Apuzzo di appena 19 anni, avvenuto nella
casermetta della frazione di Alcamo Marina. E’ una
strage terribile, ancora oggi avvolta nel mistero.
La notte tra 27 gennaio 1976, mentre i due
militari sono immersi nel sonno, qualcuno apre con
la fiamma ossidrica la porta blindata della
casermetta poi irrompe nell’edificio ed ammazza i
carabinieri Falcetta ed Apuzzo rubando armi e
divise. Pochi giorni dopo per il delitto vengono
arrestati quattro ragazzi di Alcamo, uno solo dei
quali pregiudicato, i quali sotto tortura
“confessano” ciò che non hanno fatto. Solo oggi il
caso è stato riaperto e l’innocenza dei tre (il
quarto, il pregiudicato si “suicidò” in carcere)
riconosciuta.
Perché i due militari sono stati assassinati?
Qualcuno ha ipotizzato che abbiano fermato le
persone “sbagliate” o che abbiano scoperto
casualmente qualcosa che li ha condannati, altri
ad un attacco mafioso allo Stato.
Peri per motivi di competenza non ha potuto
indagare sulla strage, ma l’ha legata alla
strategia della tensione che ha sconvolto Alcamo e
scrive
Si instaura, con tali gravi delitti consumati a
poca distanza di tempo l’uno dell’altro, il vuoto
dei poteri degli Organi dello Stato ai quali è
demandata la tutela della sicurezza pubblica…..Risultato
psicologico: l’allarme in tutti gli strati della
popolazione di Alcamo è enorme, al massimo i
negozi di ferramenta ed i fabbri incrementano i
loro incassi per la vendita di chiavistelli e la
collocazione di sbarre metalliche per chiudere, la
sera, con sicurezza dall’interno, porte, portoni e
finestre delle loro abitazioni private onde
scongiurare assalti notturni temuti nel cuore
della notte, durante il sonno….
Nel rapporto Peri, oltre ai sequestri, parla di
sette omicidi tra i quali quelli del giudice
Occorsio e del procuratore generale di Palermo
Scaglione, assassinato insieme al suo autista il 5
maggio 1971 e segnala l’analogia con un terribile
incidente avvenuto esattamente un anno dopo.
Il 5 maggio 1972, l’ultimo giorno di campagna
elettorale, un DC8 dell’Alitalia partito da
Fiumicino si schianta contro una montagna mentre è
in fase di atterraggio all’aeroporto palermitano
di Punta Raisi. E’ il peggior incidente aereo
della storia dell’aviazione civile italiana. 115
morti tra passeggeri e membri dell’equipaggio ma è
un incidente con molti lati oscuri. La commissione
d’inchiesta ha chiuso le indagini in appena un
paio di settimane dando la responsabilità ai due
piloti, due uomini esperti con migliaia di ore di
volo al proprio attivo, parlando di errore umano
e, peggio ancora, infamandoli dicendo che il
pilota Bartoli fosse ai comandi sotto l’influsso
di alcool o droga (circostanza smentita
dall’autopsia).
Non è stato tenuto conto di ciò di cui parlano i
numerosi testimoni, tra i quali due agenti di una
pattuglia della stradale che viaggia
sull’autostrada, i quali raccontano che il DC8 è
in fiamme già prima dello schianto.
Peri scrive
Non è
convincente per lo scrivente che sia un caso
fortuito che proprio il 5 maggio del 71 e del 72
si verifichino rispettivamente un grave duplice
omicidio per discreditare l’Autorità dello Stato
ed un disastro aereo che getta nel lutto e
nell’angoscia numerose famiglie generando giudizi
perplessi sulla causa. Ci si pone il dilemma:
attentato o disgrazia causata da improvviso
guasto?
L’ipotesi
dell’attentato è corroborata dalle seguenti
circostanze obiettive:
— quella
sera era l’ultimo giorno della campagna
elettorale;
— parecchi
cittadini di Carini, mentre erano in piazza a
sentire l’ultimo comizio, insolitamente videro un
aereo che sorvolava la zona e, come scrisse la
stampa, già in fiamme;
— il
pilota del DC 9 (sic: DC8 ndr ) , sorvolando Punta
Raisi, diede la precedenza all’aereo proveniente
da Catania ritardando, pertanto, di 10 minuti
l’atterraggio;
— i
cadaveri, secondo i medici legali, si presentavano
disintegrati, cosa che non avviene, invece, a
seguito di urti violenti;
— non fu
identificata la 118° vittima (sic: 115^. ndr) .
Ammessa l’ipotesi che anche tale disastro, come la
strage del treno «Italicus» ed altre stragi del
Nord attribuite a trame eversive, come quella di
Piazza della Loggia a Brescia nel giugno del 1974,
di Piazza Fontana a Milano nel dicembre del 1969,
sia un anello della «Strategia della tensione», si
deve ammettere che l’attentatore, in possesso di
una carica esplosiva ad orologeria, non voleva di
certo anche la sua morte ed approssimandosi il
momento del contatto delle due lancette e, quindi,
dell’esplosione, non si autodenunziò al personale
di bordo per ovviare alla deflagrazione ed i dieci
minuti di ritardo dell’atterraggio avrebbero fatto
esplodere la carica a bordo.
Ne discende
che l’attentatore non avrebbe voluto anche la sua
morte e forse nemmeno la strage perché ne sarebbe
stato coinvolto; avrebbe voluto forse il
danneggiamento dell’aereo già atterrato
allorquando tutti i passeggeri, lui compreso,
fossero già scesi a terra.
La
distruzione dell’aereo in questione, già
atterrato, abbandonato dai passeggeri, sicuramente
attribuibile ad una carica esplosiva ad orologeria
ad opera del criminale rimasto ignoto, non avrebbe
forse discreditato lo Stato fondato su Istituzioni
democratiche alla vigilia delle elezioni?
Essendosi, invece verificato un evento diverso non
voluto, tale scopo è stato parzialmente raggiunto
soprattutto perché sembra essere ancora dubbia la
causa di tale disastro……E’ da aggiungere che,
essendosi verificato un evento diverso da quello
voluto con la strage di oltre 100 persone,
logicamente nessuna trama eversiva l’avrebbe
rivendicato ed anche perché, trattandosi di
vittime innocenti, non avrebbe conseguito consensi
per discreditare lo Stato alla vigilia delle
elezioni, anzi avrebbe conseguito una condanna
generale. Tale episodio sarebbe stato, invece,
sicuramente rivendicato, allo scopo suddetto, se
fosse stato distrutto o danneggiato soltanto
l’aereo una volta atterrato.
Ma sono state avanzate altre ipotesi e lo stesso
Peri ne fa una meritevole di approfondimento,
segnalando che a bordo del DC8 Alitalia viaggiava
anche il magistrato Ignazio Alcamo, sostituto
procuratore generale di Palermo, responsabile
della sezione misure di prevenzione del tribunale.
Si tratta di un magistrato integerrimo che aveva
da poco avanzato la proposta di inviare al
soggiorno obbligato il più importante costruttore
edile di Palermo, Francesco Vassallo, persona
sospettata di intrecciare affari con la mafia ed a
una maestrina di Corleone, Antonietta Bagarella,
fidanzata di un boss in ascesa, Salvatore Riina.
Sono motivi sufficienti per una strage di quelle
proporzioni?
Forse è il caso di ricordare che zu’ Totò è l’uomo
il quale, secondo alcuni pentiti, ai mafiosi che
nel 1993 gli facevano presente che le autobomba
avrebbero potuto uccidere dei bambini avrebbe
risposto
"A
Sarajevo muoiono tanti bambini, perche' allora ci
dobbiamo preoccupare noi?".
Ma a bordo dell’aereo c’è anche il tenente
colonnello della Guardia di Finanza Antonio
Fontanelli, un esperto di indagini sul
riciclaggio, destinato al comando del Gruppo di
Palermo dopo avere comandato quello di Livorno.
Ancora oggi sullo schianto di Montagna Longa si
addensano ombre atroci. Se fosse un attentato,
come sospettato dal vicequestore Peri, si
tratterebbe della più terribile strage
terroristica avvenuta in Europa sino a quelle di
Madrid del 2003. Un eccidio che ha visto
trentaquattro vittime in più di Ustica, trenta più
della strage della stazione di Bologna.
Nel suo rapporto Peri precorre i tempi di almeno
dieci anni, intuendo l’esistenza di una zona
oscura di contatto tra mafia, eversione,
massoneria e apparati dello Stato. Ma è troppo
avanti sul tempo e si ritrova solo.
Quando quel 22 agosto 1977 Peri invia il proprio
rapporto alla magistratura, non c’è una sola
procura che se lo fili, nemmeno quelle in
Continente, nemmeno quella di Milano in teoria
lontana da “contagi”.
Ma è in casa che Giuseppe Peri viene demolito.
Inizia prima la procura di Marsala, dove un PM
affossa il suo rapporto poi ci pensa la questura
di Trapani.
Gli fanno il vuoto intorno, distruggendo la sua
carriera, la sua onorabilità di servitore dello
Stato. Il suo stesso questore descrive il suo
rapporto all’autorità giudiziaria come
“farneticante”.
Non basta che il 20 settembre 1977, mentre viaggia
a bordo della propria Alfetta di servizio, si
accorga che qualcuno gli abbia svitato i bulloni
della ruota anteriore sinistra, confidando in un
incidente che tolga di mezzo il rompiballe.
Per iniziativa del capo di gabinetto della
questura di Trapani il dottor Peri viene
trasferito prima a Messina e poi a Palermo,
sepolto in qualche ufficio a combattere contro
tonnellate di cartacce.
Lì, in quell’esilio, il vicequestore Giuseppe Peri
trascorre gli ultimi anni della sua vita,
amareggiato ed inascoltato, circondato dalla fama
di visionario, fumando un centinaio di sigarette
al giorno, sino a che un infarto lo porta via il
1° Gennaio del 1982.
Pochi mesi prima di morire ha avuto la sorpresa
(ma poi lo è stata davvero?) di scoprire che il PM
che ha affossato il suo rapporto e il capo di
gabinetto della questura di Trapani che lo ha
cacciato nel limbo erano entrambi iscritti alla
loggia massonica P2.
Il rapporto Peri riemerse da qualche polveroso
scaffale solo trent’anni dopo grazie alle
infaticabili ricerche della sorella di una delle
vittime dello schianto di Montagna Longa. Oggi
quello sconvolgente documento è disponibile online
e ognuno può giudicare le intuizioni di quell’uomo
comune, di quel poliziotto come tanti, di quel
servitore dello Stato che se avesse trovato
ascolto forse avrebbe potuto cambiare la storia.
Di quel Caduto.
Perché il vicequestore Giuseppe Peri è Caduto per
l’Italia, anche se purtroppo il suo sacrificio non
potrà mai essere riconosciuto dal Sacrario
ufficiale.
Nel nostro piccolo lo facciamo noi oggi, con
queste insufficienti parole.
Grazie, dottore.
Fonti: “ I Siciliani” di Alfio
Caruso, ed. Neri Pozza Bloom 2012;
siti internet:
http://montagnalonga.wordpress.com
(accurato blog dedicato alla tragedia di Montagna
Longa, completo di numerosi link di riferimento al
Rapporto Peri)
http://www.docstoc.com/docs/34020089/Renato-Azzinnari-Renato-Azzinnari-Leone-Zingales
(prefazione ad una pubblicazione dedicata al
Rapporto Peri)