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LA STRAGE SCOMPARSA

(l’eccidio alla Fiera di Milano, 12 aprile 1928)

Avvertenze: alcune descrizioni degli avvenimenti accaduti nel corso della vicenda potrebbero turbare le persone sensibili.

Più volte le vicende di protagonisti e personaggi si intrecciano nel racconto, formando un groviglio che appare a tratti inestricabile.

ABBREVIAZIONI USATE NEL TESTO:

GL : Giustizia e Libertà MVSN: Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale; PNF, partito nazionale fascista, PC d’I Partito Comunista d’Italia PS: Pubblica Sicurezza, RRCC: Reali Carabinieri

 

12 aprile 1928

La guardia scelta Giuseppe Esposito, Commissariato di PS Porta Magenta della Questura di Milano non dovrebbe trovarsi di servizio per la prevista visita di re Vittorio Emanuele III per l’inaugurazione della IX Fiera Campionaria a Milano. E’ un telefonista, uno specialista e potrebbe  quindi rimanere tranquillamente al proprio posto, ma c’è bisogno di gente. E poi lui presta servizio negli Agenti di PS da appena sei mesi dopo sette anni nei Reali Carabinieri e con i suoi nuovi colleghi non vuole farsi certo la reputazione di fannullone. E poi, quante altre volte nella vita ti potrà capitare di vedere un Re?

Come accade sempre in queste occasioni a Giuseppe viene ordinato di prestare servizio in un determinato punto, per sorvegliare la folla.  Perché c’è una gran folla, quel giorno in piazzale Giulio Cesare, la bellissima e grande piazza che accoglie i visitatori della Fiera di Milano. I milanesi sono accorsi a migliaia ed ora riempiono l’ampio piazzale, dove gli alpini del 5° reggimento si preparano al presentat – arm, in attesa dell’arrivo del Sovrano.

Giuseppe raggiunge il proprio posto, accanto all’ingresso del civico 18 di Piazzale Giulio Cesare, proprio dinanzi ad un lampione dell’energia elettrica, dal grosso basamento di ghisa sul quale si è arrampicata una bambina di sette anni, vestita con l’abito della festa e che guarda tutta eccitata l’ingresso della piazza, da dove tra pochi minuti arriverà il corteo reale. Ai piedi della colonna un bambino più piccolo, strilla alla bambina “Rosina! Voglio vedere anch’io! Voglio vedere anch’io!” mentre una donna, forse la mamma, sorride divertita.

Giuseppe dà uno sguardo alla folla attorno a sé. Operai, borghesi, famigliole, espositori della Fiera. C’è davvero tutta Milano, oggi.

Giuseppe si appoggia con il gomito sinistro al basamento del lampione. Quando arriverà il Re? Sono già le 10….

“… d’un tratto mi sentii portato contro quelli più vicini a me. Il mio udito fu lacerato da un colpo: un boato fragoroso, simile ad una cannonata. Quindi i miei occhi vennero abbagliati da una vampata alta tre o quattro metri, seguita da un fumo denso e nerastro. Tra le ultime immagini che i miei occhi ricordano è quella di un giovane che stava appoggiato con il gomito sinistro al basamento del pilone. Lo vidi lanciato a qualche metro, e rompersi tutto, come inondato di sangue...vidi ancora come una eruzione di lapilli dalla bocca di un cratere. Erano le schegge di ghisa del basamento lanciate a tutta forza violentemente in tutte le direzioni. La folla sembrò scindersi. Uomini, bambini, donne e soldati cadevano come falcidiati da una raffica di mitraglia. Urla di dolore, grida di invocazione e di soccorso. Aiuto! Aiuto! Erano le esclamazioni che maggiormente echeggiavano. Schegge da ogni parte, membra staccate dai corpi. Io caddi a terra e questa fu la mia salvezza” (la Stampa, 13 Aprile 1928)

questa è la drammatica testimonianza rilasciata alla stampa da un sopravvissuto all’esplosione della bomba che, alle 10 del mattino, mentre il corteo reale parte dalla Stazione Centrale di Milano, ha ucciso  all’istante quattordici persone (altre sei moriranno nei giorni successivi) e ferito decine di persone.

Tra le vittime la guardia scelta di PS Giuseppe Esposito, 28 anni. I fratellini Rosina e Gian Luigi Ravera di 8 e 5 anni.  Natalina Ravera, zia di Rosina e Gian Luigi, morta in ospedale implorando i medici di salvarle il figlio Enrico  di 3 anni, ferito a sua volta nell’attentato. Luigi Solenghi, rappresentante di commercio. La sera prima era ritornato da un viaggio di lavoro e per rilassarsi aveva portato la famiglia alla Fiera. Lina Bensussan, collegiale di 13 anni, si era recata in piazzale Giulio Cesare insieme alla ex domestica Giuseppina Bassi, di 32 anni, morta anche lei nell’eccidio e ai fratellini, rimasti feriti. Gli alpini Pietro Ratti e Biagio Aldenghi, del 5° reggimento. Natalina Dallacà, 22 anni,  maestrina di Tortona,  in visita a Milano dagli zii. E poi Noemi Casali, Giovanni Cerizza, Filippo Pezzenati, Paolo Rejna, Costante Scotti, Alfonsina Tarantini. Nei giorni successivi si aggiungeranno al terrificante elenco il piccolo Enrico Ravera, figlio di Natalina, morta implorando i medici di salvarlo, l’undicenne Luigi Gea, Giuseppina Tognaccini e il ventenne milite fascista Achille Beretta. Venti morti, ai quali con ogni probabilità si aggiunsero alcuni feriti gravissimi morti nei mesi e negli anni successivi ma il cui decesso non venne reso noto dalla censura di regime.

Un attentato al Re, uno spaventoso massacro. L’Italia intera è sconvolta dalla strage e non fa caso a un evento molto strano accaduto durante i funerali, quando alle 17 bare delle vittime morte tra il 12 ed il 14 aprile ne vengono aggiunte altre due, quelle di due militi della MVSN della Legione Carroccio uccisi in quello che viene definito eufemisticamente “un incidente”. Ma su costoro ritorneremo in seguito, come ritorneremo su una perquisizione eseguita dalla questura alla sede della squadra “Oberdan”, formata da fascisti di stretta osservanza repubblicana.

Nel frattempo il Regime vuole rapida vendetta. Nel suo telegramma al podestà di Milano, Mussolini parla chiaramente “….degli innocenti colpiti a morte dalla bestiale criminalità dell’antifascismo impotente e barbaro….”.

Iniziano le indagini e, per fortuna di coloro che negli anni successivi si alterneranno sul banco degli imputati, ad effettuare le prime analisi sulla bomba è il tenente colonnello del Regio Esercito Mario Grosso, della sezione staccata dell’Artiglieria di Milano. Un esperto rispettato, dalla professionalità indiscutibile e, soprattutto un uomo onesto.

La perizia (per chi è interessato un ampio estratto è disponibile  nell’accurato libro “Attentato alla Fiera” di Carlo Giacchin, Mursia 2009) è estremamente accurata e precisa. Grosso identifica il tipo di esplosivo in dinamite o gelatina esplosiva, comprende che la bomba è stata piazzata dagli assassini nel vano del basamento del lampione perché l’effetto devastante dell’esplosione fosse stato aumentato dalle schegge di ghisa del supporto,  intuisce che la bomba è stata attivata da un congegno ad orologeria e che  “L’operatore e gli operatori sono persone molto pratiche di esplosivi e del loro più utile impiego” (Giacchin, op. cit, pag. 24).

Ma la perizia Grosso è uno dei pochi fari di luce in questa vicenda. In puro stile italiano inizia un’atroce e grottesca lotta che ci lascia ancora increduli, nonostante siano trascorsi 85 anni dalla strage e dopo gli eccidi che hanno costellato la storia dell’Italia repubblicana.

Cominciamo dal prima. Come scopriranno basiti gli ispettori generali di PS incaricati  dell’indagine dal Capo della Polizia Arturo Bocchini, la Questura di Milano aveva ricevuto l’11 aprile una lettera anonima che segnalava i preparativi di un attentato al corteo reale, con il lancio di una bomba contro l’auto del sovrano. Il questore Pericoli aveva disposto l’arresto preventivo dei “soliti sospetti” (oltre 400 finirono in carcere la sera dell’11) e un servizio di vigilanza e prevenzione lungo tutto il  percorso, diretto però ad individuare solo individui sospetti e non delle bombe occultate. Come concluderà l’ispettore generale Valenti nel proprio rapporto, se fosse stato disposto un servizio di piantonamento da parte di singoli agenti o pattuglie in piazzale Giulio Cesare, luogo d’arrivo del corteo, il massacro non avrebbe potuto avere luogo.


(Il Capo della Polizia Arturo Bocchini)

Nel frattempo è iniziato il balletto delle indagini.

1) la pista rossa. Mussolini ha affidato il comando dell’indagine al console della Milizia Ferroviaria Vezio Lucchini. Ufficialmente la scelta è dovuta al fatto che nel mese di aprile sono stati sventati due attentati alle linee ferroviarie sulle quali sarebbero dovuti transitare i treni con a bordo sia il duce che il Re. In uno dei casi addirittura un ferroviere ha notato due uomini mentre stavano deponendo la bomba e che alla vista dell’uomo si sono dati alla fuga. La MVSN attraverso un infiltrato, il quale risulterà poi alle dirette dipendenze dell’Ufficio Politico Investigativo della Legione “Carroccio” della MVSN cerca di dimostrare la tesi di un complotto con radici all’estero, in Francia e a Mosca, arrestando i componenti di una cellula clandestina del PC d’I. C’è un problema: i militanti arrestati sono delle figure del tutto secondarie e le “prove” ottenute della MVSN anche grazie ad altri infiltrati, sono davvero labili anche per il Tribunale Speciale fascista. La “quadra” sembra arrivare il 14 aprile, quando la MVSN di Como arresta un giovane membro del PC, Romolo Tranquilli.


(Romolo Tranquilli )

Durante la perquisizione dalla tasca è saltata fuori tra le altre cose una carta con tracciata la piantina di quella che sembra una piazza. “Piazzale Giulio Cesare!” esclamano trionfanti i formidabili investigatori della MVSN, nonostante già dalla sera del 14 il colonnello Cerica, comandante dei RRCC di Como e futuro comandante generale dell’Arma, smonti la tesi della MVSN, la quale però non intende mollare. Tranquilli è una preda di prim’ordine. E’ infatti il fratello dell’alto dirigente del PC d’I Secondino, il futuro scrittore Ignazio Silone ed è stato trovato in possesso di materiale politico di estremo interesse, anche se non attinente alla strage. La MVSN tortura Tranquilli per costringerlo a “confessare” e attraverso testimonianze “pilotate”, cerca di accreditare la sua presenza in piazzale Giulio Cesare la sera dell’11 aprile, ma la tesi viene smontata dall’alibi inattaccabile di Tranquilli che lo dà ben lontano da Milano (anche se Tranquilli verrà prosciolto dall’accusa di strage solo un anno dopo) e dalla dimostrazione che la famigerata piantina trovata in suo possesso non è quella di Piazzale Giulio Cesare ma quella di una piazza di Como nella quale avrebbe dovuto incontrare il futuro segretario del PCI Luigi Longo. A verificare questo alibi ed a smontare la pista rossa è un commissario di PS, Carmelo Camilleri, sul quale ritorneremo. Alla fine di aprile quando l’inchiesta sembra avviata ad una rapida conclusione, con un processo a porte chiuse di fronte al tribunale speciale ed a una  scontata  fucilazione degli imputati, il capo della Polizia Bocchini si incontra a Milano con il console Lucchini. Non è un incontro, è uno scontro violentissimo. Arturo Bocchini smonta una per una le tesi accusatorie della MVSN contro la cellula del PC d’I, accusando le camicie nere di pressapochismo, faciloneria e incompetenza nella conduzione delle indagini. E’ la vittoria della Polizia e la sconfessione della MVSN, sancita dallo stesso Mussolini e dalla Commissione Istruttoria del Tribunale Speciale che valuta la cellula milanese per ciò che in realtà è:  una manica di fessi, incapace di riconoscere gli infiltrati al suo interno. Gli imputati nel 1929 vengono prosciolti definitivamente dall’accusa di strage, anche se verranno condannati per la ricostituzione del Partito Comunista. Nel frattempo è accaduto qualcosa di strano: gli antifascisti in esilio hanno ricevuto e pubblicato ampi stralci delle deposizioni degli accusati e degli interrogatori. Ma qui ritorneremo.

Romolo Tranquilli, condannato a 12 anni di carcere,  debilitato dalle sevizie subite, muore il 27 ottobre 1932. La ventunesima vittima di Piazzale Giulio Cesare.

2)la pista nera. Ricordate le bare dei due militi della “Carroccio”, allineate nel Duomo insieme a quelle delle vittime della strage? Ufficialmente si dice che le due camicie nere erano incaricate della protezione del Sovrano e che, morte in servizio per un “incidente”, le loro esequie dovessero essere svolte con quelle delle vittime dell’eccidio.

A quanto si legge in un comunicato dell’Agenzia “Stefani” del 13 aprile e sul Corriere del 14 al momento della distribuzione delle armi all’interno della caserma di Via Mario Pagano a Milano, un milite, mentre si allaccia il cinturone, tiene stretto tra le ginocchia il moschetto ’91. Dall’arma parte un colpo, che raggiunge la camicia nera al ventre e che “prende d’infilata un gruppo di militi” … risultato: due morti e tre feriti. Un proiettile “magico”, un po’ come quello di Kennedy a Dallas, dato che riesce a colpire cinque uomini uno dopo l’altro. Incidente improbabile, quindi. Resta da capire se l’evento, che ha visto accorrere in Via Mario Pagano anche Arnaldo Mussolini, il fratello del duce, sia collegato alla strage del giorno precedente oppure a tensioni tra varie fazioni presenti all’interno della “Carroccio”. E’ da rimarcare comunque che il primo degli infiltrati che dirige l’inchiesta contro la cellula comunista milanese è alle dirette dipendenze della “Carroccio”. Quindi, dando per assodata la non casualità della morte dei due militi, come sorprendersi se si è parlato di una sparatoria tra fazioni all’interno della caserma, alla fucilazione dei responsabili o addirittura all’esplosione accidentale di parte dell’esplosivo dello stesso tipo usato alla Fiera? Ma la pista interna viene privilegiata anche dagli investigatori della Polizia. Si è conservata la trascrizione di un colloquio telefonico tra il Capo della Polizia Bocchini e l’ispettore generale Francesco Nudi a Milano Abbiamo setacciato il campo degli anarcoidi e degli antifascisti, che sono ridotti a pochi; ma non ci è risultato nulla…. Anzi, io penso….” La risposta di Bocchini è secca Che le ricerche debbano essere indirizzate in senso contrario, come per quelli di Bologna….” NudiMe lo avete levato di bocca, Eccellenza: bisognerebbe spostarsi verso Cremona…” (Giacchin, op.cit. pag. 68).

Le parole di Bocchini e Nudi sono chiare. Dopo un attentato subito da Mussolini a Bologna nel 1926 molti sospetti avevano colpito il ras del fascismo cremonese Roberto Farinacci e quello bolognese, Arpinati. Anche per Piazzale Giulio Cesare i dubbi coinvolgono l’interno del Regime, come dimostra la perquisizione effettuata quello stesso 12 aprile da agenti della questura di Milano nella sede del circolo “Oberdan”, sede dei fascisti di orientamento repubblicano e collegati al “federale” di Milano, il ras fascista  Mario Giampaoli,.

Perché sia stata eseguita la perquisizione alla “Oberdan” non si è mai capito, come non si è mai saputo se vi fosse stato trovato qualcosa.

La sera stessa della strage si inizia però a parlare di uomini di Giampaoli come responsabili. Forse sono calunnie, messe in giro da nemici del ras milanese, come Farinacci ed Arpinati, che a Milano hanno ancora parecchi legami. La favola del fascismo duro e puro, formato da camerati fedeli all’Idea e amici l’un l’altro come tanti fratellini è una balla clamorosa. Gli odi all’interno dei “vecchi camerati” sono spietati.

Inoltre bisogna rilevare anche un particolare mai abbastanza evidenziato dagli storici del Ventennio: è in quello stesso 1928 che si evidenzia il primo scontro tra Monarchia e Regime: è infatti quell’anno che il Gran Consiglio del Fascismo otterrà di poter mettere becco nella delicata questione della successione al trono. Ma sarebbe quello lo scopo di una strage “interna” solo un segnale da parte della frangia più estrema del PNF? Come viene ipotizzato per le stragi degli anni ’70, quella della Fiera potrebbe essere stata ordita per stabilizzare ulteriormente il Regime e fare sentire a Palazzo Venezia la voce dei fascisti più duri e puri?

No, in piazzale Giulio Cesare nulla è ciò che sembra.

Ritorniamo ad un nome che abbiamo già incontrato, quello del commissario Camilleri, quello che verifica l’alibi di Tranquilli e smonta la pista rossa. Carmelo Camilleri, 36 anni, è tutt’altro che un antifascista, dato che si è fatto le ossa lottando contro i “sovversivi” nelle Puglie e in Toscana. Una carriera in ascesa che però viene stroncata nel 1927 fa tre  trasferimenti nel giro di quattro mesi, prima a Roma, poi a Brindisi ed infine a Milano, dove arriva all’inizio del 1928. Una catastrofe professionale alla quale non è estranea probabilmente la morte della figlioletta. Quando viene chiamato a partecipare alle indagini sulla strage, Camilleri si convince della inconsistenza della “pista rossa” e comincia a credere che gli assassini siano molto più vicini e siano riconducibili al gruppo di Giampaoli. Uno dei collaboratori di Camilleri, il brigadiere Crespi, ottiene delle informazioni secondo le quali gli autori sono gli ex arditi della squadra “Oberdan”, uomini di Giampaoli. La “Oberdan”,  non dimentichiamolo: la cui sede viene perquisita dalla questura il 12 aprile.

Camilleri dopo essersi battuto per far riconoscere l’innocenza dei comunisti (“…. Essi erano innocenti e dovevano essere salvati…” C. Giacchin, op.cit. pag 77)  di fronte ai propri sospetti sui fascisti milanesi si trova di fronte ad un autentico muro da parte del Tribunale Speciale e della stessa Questura milanese: Giampaoli è intoccabile. In agosto, ufficialmente per motivi di salute, Camilleri lascia la Polizia andando a lavorare dall’avvocato di uno dei comunisti ancora sotto inchiesta e porta con sé le copie dei fascicoli dell’inchiesta, che farà arrivare ai giornali antifascisti d’Oltralpe. La loro pubblicazione contribuirà all’assoluzione definitiva della cellula milanese, ma porterà all’arresto di Camilleri e alla sua condanna a cinque anni di confino, amnistiati nel 1932, per il decennale del Regime.

Camilleri esce dal confino con la vita distrutta e nei dieci anni successivi la sua vita sotto il Regime sarà durissima, ma è solo grazie a lui che tre innocenti hanno evitato il plotone d’esecuzione. La pista da lui proposta, la “pista nera” si è già arenata nello stesso momento in cui lui ha lasciato la Polizia.

3) Le piste minori. Va bene che in certi casi le indagini spaziano a 360°, ma per Piazzale Giulio Cesare si esagera. In quel periodo delle piste inconsistenti cercano di collegare al massacro anche l’ex presidente del consiglio Francesco Saverio Nitti, in esilio dopo il delitto Matteotti, ma esistono anche una serie di piste altrettanto evanescenti proposte da  una serie di infiltrati, delatori e antifascisti “pentiti” residenti all’estero ma che non reggono ai precisi riscontri della Direzione Generale di PS. Per un periodo si presta attenzione ad un’assurda pista armena. Per un certo periodo prende corpo la pista anarchica, proposta dal questore Giovanni Rizzo, una leggenda della Questura di Milano ma nel 1928 praticamente in disarmo.   Rizzo (del quale racconteremo la carriera in un altro momento) nel 1921 ha arrestato i tre anarchici responsabili della strage al teatro Diana, costata la vita a 21 innocenti ed è convinto che il massacro di Piazzale Giulio Cesare abbia la stessa matrice.  Peccato per lui che il movimento libertario in Italia non sia più quello di sette anni prima. Fa arrestare una mezza dozzina di anarchici,  gestisce i testimoni in modo a dir poco spregiudicato, produce tonnellate di  inutile carta, ma indizi nulla. Una pagliacciata, tanto che sarà lo stesso Bocchini a chiedere a Mussolini la liberazione degli arrestati. Sulla richiesta di Bocchini, sarà lo stesso Uomo del Balcone a scrivere “Sta bene. M.”


(a sinistra il Questore Giovanni Rizzo all'epoca della foto ancora Commissario nel 1922)

Rizzo finisce la sua carriera in maniera ingloriosa. Diventerà la “balia” di Gabriele d’Annunzio. Un confinato che sorveglia un altro confinato, per quanto di lusso.

Altra pista è quella della Giovane Italia, un movimento di ispirazione repubblicana al quale partecipano  persone che nel secondo dopoguerra diventeranno Storia. Ugo La Malfa, Giorgio Amendola, Lelio Basso, Leo Valiani, solo per citare alcuni dei loro nomi. Contro la Giovane Italia non c’è però alcuna prova e i suoi appartenenti verranno condannati solo per reati riconducibili al loro antifascismo.

4) la pista Giustizia e Libertà. E’ nel dicembre 1930 che una ancora sconosciuta sezione della Direzione Generale di PS chiamata OVRA arresta i componenti di una organizzazione antifascista chiamata appunto Giustizia e Libertà.

L’OVRA, il cui acronimo verrà tradotto in Opera Vigilanza e Repressione Antifascismo (anche se probabilmente il nome venne scelto per il suo suono misterioso ed inquietante) è l’occhio del regime, impiegato nella lotta ai nemici interni del fascismo, ha iniziato ad indagare su GL da qualche mese, dopo una serie di azioni dimostrative di questa organizzazione.

GL è nata nel 1929, fondata dagli antifascisti Gaetano Salvemini, Carlo Rosselli, Emilio Lussu, gli ultimi due evasi nel luglio dello stesso anno dal confino di Lipari. E’ un gruppo che, fatta salva la pregiudiziale repubblicana, si propone di riunire intorno a sé l’antifascismo comunista.

Nel 1930 l’organizzazione ha già una rete clandestina nel Nord Est d’Italia e in altre importanti città, con figure di prestigio come a Milano Riccardo Bauer ed Ernesto Rossi. Ed è proprio nel gruppo milanese di GL che entra l’avvocato udinese Carlo Del Re.

Del Re viene considerato un militante prezioso ed entusiasta e viene messo a parte del progetto di GL, l’esplosione simultanea nella notte tra il 27 ed il 28 ottobre 1930 di una serie di bombe in sei sedi dell’intendenza di finanza di altrettante città italiane, in contemporanea con il lancio di alcuni volantini  antifascisti su Roma. A confezionare le bombe, con una miscela micidiale di esplosivo al fosforo, è il giovane chimico Umberto Ceva, così bravo che quando fa esplodere una di queste bombe per un test, lo stesso Ceva si spaventa. Pur di evitare un qualsivoglia incidente al personale delle intendenze di finanza, all’insaputa dei compagni, in presenza di Del Re,  finge un incidente alle bombe e le disattiva immergendole nell’acqua, ma Del Re insiste per eseguire almeno un attentato, venendo però bloccato dal risoluto no di Ernesto Rossi. Le bombe vengono gettate nel fiume Brembo.


(Umberto Ceva)

Ciò che il gruppo milanese di GL ignora è che Del Re è diventato informatore dell’OVRA per il più banale dei motivi. Il buon avvocato si è mangiato i soldi dei clienti al tavolo delle carte e, per non finire in galera, offre all’OVRA la struttura di GL. Di ogni gesto ed ogni decisione del gruppo viene portato a conoscenza l’ispettore Francesco Nudi, della Prima Zona OVRA di Milano, il cui scopo è quello di lasciare fare i giellisti sino al momento della collocazione delle bombe negli uffici delle intendenze di finanza per poi arrestarli tutti.

La decisione di Ceva scombina in piani dell’OVRA, che comunque recupera gli ordigni e il 30 ottobre 1930 procede all’arresto dei membri di GL e della massoneria, della quale molti giellisti sono membri.

L’ OVRA si convince della responsabilità di GL nella strage della Fiera, anche se il comportamento di Ceva non è esattamente quello che ci si può aspettare da uno stragista. Vengono analizzate le bombe recuperate dal Brembo, questa volta da un esperto che non è il colonnello Grosso, il quale viene estromesso dalle indagini su GL.

Gli ispettori Nudi e Petrillo iniziano l’interrogatorio di Ceva, e il primo assume il ruolo dello sbirro buono. No, a differenza di Romolo Tranquilli Ceva non viene torturato. L’OVRA non è composta da quel mucchio di dementi della MVSN. Nel gioco delle parti Petrillo è il poliziotto rigoroso che incalza Ceva, mentre Nudi si assume il ruolo dell’avversario leale. Nudi conquista la fiducia di Ceva parlando della strage alla Fiera, discutendo con l’arrestato (insinuando, secondo gli storici Giacchin e Franzinelli) della possibilità che alcuni membri di GL possano avere compiuto il massacro.

Lui, dice l’ispettore Nudi, è un idealista circondato da uomini malvagi. Lui, Ceva, di certo non lo avrebbe mai voluto, ma è stato inconsapevolmente complice degli stragisti del 12 aprile. Non vorrebbe forse aiutarlo a capire ed a incastrare gli assassini?

Umberto Ceva inizia a cedere. Le parole di Nudi colgono nel segno e probabilmente apre qualche spiraglio, a definire qualche particolare. Anche se i colloqui non verranno verbalizzati, si ha notizia delle cosiddette “confidenze Ceva”, carte che secondo gli storici sarebbero dovute essere la base per l’imputazione per strage contro GL.

Il 12 dicembre 1930 l’ispettore Nudi chiude l’indagine contro GL e accade qualcosa di sorprendente. Nelle carte inviate al Tribunale Speciale non viene fatto alcun riferimento al massacro di Piazzale Giulio Cesare. Perché? Perché Nudi si è reso conto che Ceva non può riferirgli nulla di utile? Perché si è convinto dell’innocenza di GL? Perché le “confidenze Ceva” non sono ancora abbastanza robuste da consentire il rinvio a giudizio e la condanna del gruppo di GL?

Non lo sapremo mai perché il potenziale principale teste d’accusa, Umberto Ceva, si toglie la vita in carcere. Nella sua lettera d’addio all’ispettore Nudi è molto chiaro  “.. mi uccido avendo la coscienza tranquilla e le mani pulite. Se avessi avuto o mi fosse stata data la prova, o almeno avessi avuto la certezza morale verrei al processo senza preoccuparmi di me stesso. Dalle mie mani non è mai uscito nulla che potesse fare male ad anima viva. Ma poiché la prova manca, passando l’incubo terribile che mi ha fatto vedere cose orrende là dove forse non vi è nulla di simile, io sento che non potrei resistere e diventare l’istrumento di uno spaventoso procedimento indiziario, che del resto le circostanze giustificherebbero…” 

Non ricordiamo chi disse che un uomo in punto di morte non può mentire, ma quella sincerità si avverte nella lettera di addio di Ceva, che invitiamo a leggere integralmente. Nelle sue parole si può avvertire però anche il tormento di un uomo onesto che non vuole rovinare degli innocenti, ma anche di chi è assalito da atroci dubbi “l’incubo terribile che mi ha fatto vedere cose orrende là dove forse non vi è nulla di simile” . Già…. forse.

Il suicidio di Umberto Ceva  è un brutto colpo per l’immagine internazionale del regime, che viene accusato della morte del detenuto.  Il ruolo dell’infiltrato Del Re viene denunciato dagli antifascisti in esilio e l’attenzione dell’opinione pubblica estera si sposta sul processo agli appartenenti ai giellisti. Ai giornalisti stranieri viene concesso di presenziare alle udienze che si concludono con condanne severe per i reati politici. Piazzale Giulio Cesare non viene però addossata agli accusati. Il suicidio di Ceva lo ha reso impossibile.

Le “confidenze Ceva” riprendono vigore però alla fine del 1931 quando l’ispettore Nudi scrive in un promemoria indirizzato ai propri superiori di essere stato informato dal giellista suicida del diretto collegamento tra la strage alla Fiera e due falliti attentati dinamitardi all’Arcivescovado di Milano dei quali sarebbe stato responsabile un operaio milanese, tale dante Fornasari, il quale sarebbe stato fatto espatriare da un antifascista appartenente a GL, Vincenzo Calace condannato a dieci anni nel processo contro l’organizzazione.

Mettiamo le mani avanti. Se davvero Ceva fece il nome di Fornasari e Calace è difficile capire come mai questi fatti non vennero citati nell’istruttoria inviata al Tribunale Speciale. Come è difficile capire come mai Nudi trova un qualsiasi collegamento tra la bomba di Piazzale Giulio Cesare, confezionata da mani esperte e quelle dell’arcivescovado che, secondo il colonnello Grosso, sono a dir poco maldestre.

C’è una sola spiegazione: attraverso le “confidenze Ceva” l’ispettore Nudi copre un infiltrato: o l’avvocato Del Re oppure un altro informatore sconosciuto all’interno di GL. Nonostante ciò la pista si arena nuovamente, nonostante un vano tentativo di ridarle vita da parte di un altro ottimo poliziotto, Guido Leto.

5) la nuova pista su Giustizia e Libertà. L’estate del 1931 è contrassegnata da una serie di attentati, con l’esplosione di alcuni pacchi bomba inviati dall’estero. Muoiono tre persone, due operai delle ferrovie e un brigadiere dei carabinieri mentre vi sono diversi feriti.

Una cosa che risalta è che a differenza degli attentati dimostrativi di GL chi invia i pacchi bomba non va tanto per il sottile, tanto che nel corso dell’estate gli attentati saranno ben dodici. L’OVRA riesce a scoprire gli attentatori grazie ad un colpo di fortuna, l’esplosione accidentale di una bomba che ferisce uno dei terroristi ed uccide sua madre.  Da lì gli inquirenti, guidati dall’ispettore Guido Leto riescono a risalire ad un ingegnere bellunese di nome Giobbe Giopp.

Tra il 1927 ed il 1928 Giopp insieme ad un gruppo di repubblicani di sinistra ha programmato una serie di attentati dimostrativi al fine di scoraggiare i gruppi finanziari stranieri dall’investire in Italia. Il gruppo è però pesantemente infiltrato dalla Polizia e il 21 marzo 1928 Giopp viene arrestato.

Ciò che è interessante è che dai giorni successivi all’arresto di Giopp il Ministero dell’Interno e quelli delle Forze Armate lanciano l’allarme ai comandi periferici per attentati contro edifici pubblici in tutta Italia. Il 10 aprile 1928, due giorni prima della strage, dalla direzione della polizia politica viene lanciato l’allarme per la possibilità di attentati a strutture industriali.

Quindi, riepiloghiamo: un gruppo antifascista progetta attentati, la direzione generale di PS viene informata di ciò, pochi giorni dopo una bomba dilania 20 innocenti e uno dei massimi esponenti di questo gruppo, Giobbe Giopp, non viene deferito al tribunale speciale ma inviato al confino dopo pochi mesi di galera. Confino durante il quale riceve agevolazioni a dir poco incomprensibili, come una serie di “licenze”  per motivi di studio. Come quella che gli permette di scappare, nel luglio 1930, e di raggiungere Parigi.

Qui Giopp si dà parecchio da fare. Partecipa alla nascita di una nuova organizzazione antifascista la “Giovane Italia”, che a parte il nome non ha nulla a che fare con quella annientata dalla Polizia nel 1928, programma altri attentati, come quelli dell’estate 1931, scrive opuscoli informativi, indaga su presunte spie, scrive sui giornali antifascisti fuori dell’Italia e sulla stampa clandestina distribuita entro i confini del Regno, denuncia nel novembre 1930 il processo subito da Giustizia e Libertà. L’OVRA non la prende bene e, nel gennaio 1931, fa pubblicare dal giornale romano “la Tribuna” un memoriale scritto in carcere da Giopp nel 1928 in cui l’ingegnere bellunese fa i nomi degli altri componenti del proprio gruppo. Giopp è compromesso di fronte agli altri fuoriusciti, tanto che nel Dopoguerra la vicenda sarà al centro di una controversia giudiziaria con altri antifascisti del calibro di Gaetano Salvemini. Controversia che, è doveroso precisarlo, vedrà l’ingegner Giopp vincitore.

Ritorniamo al 1932. Attraverso alcuni infiltrati dell’OVRA, l’analisi di un messaggio sul luogo di un precedente attentato e un uso spregiudicato delle “confidenze Ceva” la Polizia si convince della responsabilità di Giopp nella confezione della bomba di Piazzale Giulio Cesare e coinvolge nuovamente Giustizia e Libertà nell’inchiesta, facendo il nome di Fornasari, coinvolto negli attentati all’Arcivescovado. Ciò nonostante l’evidente differenza tra le bombe confezionate da Ceva, quelle rinvenute all’arcivescovado di Milano e quella di piazzale Giulio Cesare. Mancano però altri riscontri e la pista si arena di nuovo per riprendere corpo nel 1935, quando alcune testimonianze sembrano far riaprire il caso, coinvolgendo stavolta Fornasari, indicato come autore materiale del massacro. Le testimonianze però sono talmente contraddittorie  e inconsistenti che lo stesso Tribunale Speciale preferisce lasciare perdere.

Trascorrono gli anni. Nel 1940 il potente capo della Polizia Arturo Bocchini muore. Il suo unico cruccio, secondo Guido Leto, fu di non essere riuscito ad individuare i responsabili dell’eccidio del 12 aprile 1928.

Le indagini su Giustizia e Libertà sembrano riprendere vigore dopo il 25 luglio 1943 e la caduta di Mussolini. Si coinvolge nuovamente Fornasari, riemerge il nome di Giopp, si indaga sui vertici di GL, ma l’indagine si blocca, esattamente il 7 settembre 1943.

Il giorno dopo la Prima Italia, quella monarchica, si suiciderà con l’Armistizio.

Conclusioni:

La strage della Fiera servì come un’arma per colpire l’opposizione al regime fascista. Comunisti, repubblicani, giellisti, anarchici e fascisti dissidenti vennero raggiunti uno dopo l’altro dall’accusa infamante di responsabilità nella strage. Il controllo dell’apparato poliziesco sul Paese raggiunse livelli sino allora mai visti in Europa Occidentale.  Le leggi speciali vennero mantenute anche “grazie” a quell’orrendo massacro.

Ma basta questo ad accusare il regime per l’orrore del 12 aprile 1928?

Chi può leggere quanto è stato scritto sulla strage (poco, in verità) riporta la netta impressione che nemmeno Mussolini volesse scavare a fondo sull’eccidio di piazzale Giulio Cesare, forse perché sapeva bene chi vi si trovasse dietro o per timore di scoprire la verità.

Ma che dire degli antifascisti?

Perché nessuno di loro nel Dopoguerra chiese la riapertura delle indagini, perché la magistratura dell’Italia libera nata il 25 aprile 1945 non tentò di dare giustizia alle vittime?

La risposta è in quell’“incubo terribile che mi ha fatto vedere cose orrende là dove forse non vi è nulla di simile” scritto da Umberto Ceva prima di togliersi la vita.

Forse. E’ quell’avverbio a colpire gli antifascisti che si richiamano all’esperienza di Giustizia e Libertà. Come Ceva sono tormentati dal dubbio che qualcuno di loro possa avere una diretta responsabilità nel massacro. E, forse, non è solo un dubbio.

Lo storico Carlo Giacchin, nel suo essenziale “Attentato alla Fiera”  (Mursia 2009) offre l’unica spiegazione plausibile, per quanto amarissima, all’orrore di Piazzale Giulio Cesare.

“L’ideazione della strage alla Fiera va forse ricercata nel sottobosco di informatori, doppiogiochisti, spie, antifascisti pentiti o fascisti dissidenti che proliferava tra Milano, Lugano, Parigi, Nizza e Marsiglia, e tra i quali c’era chi aveva cercato, in più occasioni, di coinvolgere singoli fuoriusciti in progetti di attentati dinamitardi. Ma i responsabili dell’effettiva realizzazione rimasero, e rimarranno per sempre, nell’ombra ”  (op.cit. pag. 201).

Come sono rimasti nell’ombra i morti di quel mattino d’aprile, scomparsi dalla già labile memoria nazionale.

Chi va in Piazzale Giulio Cesare, oggi, non troverà nulla che ricordi la strage di ottantacinque anni fa. Non c’è un monumento, una lapide, nulla che rammenti le venti vittime di allora. 

Come la guardia di PS Giuseppe Esposito, dilaniata dalla bomba.

Come Natalina Ravera, morta supplicando i medici di salvare il suo piccolo Enrico.

Come il piccolo Enrico, morto a 3 anni pregando i sanitari che lo medicano, dopo essere stati costretti a praticare la più atroce delle operazioni per un bambino  “Signor dottore, per carità, faccia piano, mi duole tanto”.

Come le altre diciassette vittime della strage.

Una strage scomparsa.

Fonti ed opere principali consultate: “Attentato alla Fiera” di Carlo Giacchin, Mursia 2009, “I tentacoli dell’OVRA” di Mimmo Franzinelli, Bolatti Beringhieri 2000, quotidiani “Corriere della Sera” e “la Stampa” del 13 aprile 1928 e successivi.