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UNA STORIA SEMPLICE

(il Delegato di P.S. Costantino Pulusella, il signor Leonardo Romano ed il massacro di Lagopesole, 1863)

 

Avvertenza: in questa narrazione sono esposti episodi particolarmente crudi, tratti dalle cronache giornalistiche del tempo e che potrebbero turbare la sensibilità dei lettori.

 

Nel 1860 la caduta dei Borboni  provoca nel Regno delle Due Sicilie un caos politico, militare e sociale simile sotto molti aspetti a quella che si verificherà con l’armistizio dell’8 Settembre 1943. Uno dei risultati, niente affatto secondario, è la liberazione o la fuga dalle prigioni borboniche di centinaia di detenuti. Molti sono poveri ladri di polli, altri ancora sono liberali o repubblicani condannati dalla giustizia borbonica, ma tanti, tantissimi, sono criminali della peggior specie.

 

Come Giuseppe Nicola Summa, detto Ninco Nanco, da Avigliano, nell’attuale provincia di Potenza. Non lasciarti ingannare dal pittoresco soprannome che fa pensare a qualche simpatico personaggio di paese. In realtà il giovane contadino è un criminale, ammaestrato dai fulgidi esempi familiari che hanno già gloriosamente calcato le scene della malavita rurale. Uno zio infatti è Giuseppe Nicola Coviello, famoso brigante dell’epoca preunitaria, bruciato vivo nell’incendio di una capanna di paglia dove si era rifugiato per sfuggire alla polizia borbonica. Un altro zio, dopo avere scontato dieci anni di carcere per avere picchiato un gendarme, festeggia la libertà accoppando un concittadino per questioni di gioco e quindi si dà alla latitanza nelle Puglie, dove ammazza l’incauto massaro che gli ha offerto lavoro.

 

Con simili esempi, il giovane Giuseppe Nicola ha la strada segnata. A vent’anni, nel 1853 viene ferito nel corso di una lite per motivi di gioco, a quanto pare vizio di famiglia. Nel 1856 viene aggredito, pugnalato ed abbandonato in mezzo alla strada come morto, ma Ninco Nanco ha la pelle dura e sopravvive. Rifiuta di aprire bocca con la gendarmeria borbonica e nel corso della lunga degenza medita vendetta quindi, una volta guarito, ammazza a colpi di scure uno dei suoi feritori. Viene arrestato e condannato a dieci anni di prigione nel durissimo bagno penale di Ponza, dal quale evade meno di quattro anni dopo, al momento del crollo dei Borbone. Tornato in Basilicata, cerca di arruolarsi prima nei garibaldini poi in varie unità locali di orientamento liberale e filo piemontese, ma viene sempre rifiutato. Anzi, quando si presenta a una colonna di volontari diretta a combattere i borbonici, sfugge a stento alla vendetta dei familiari della sua vittima presenti nella formazione. Si dà alla latitanza e pochi mesi dopo si lega alla banda di Carmine Crocco Donatelli che insieme ad altri ha scatenato la guerriglia contro le Forze Armate e di Polizia del nuovo Regno d’Italia, in nome di Francesco II di Borbone, nel tentativo di restaurare l’antica Dinastia di Napoli.

E’ una vera e propria guerra civile, una edizione su scala minore del conflitto che negli stessi anni sta dilaniando gli Stati Uniti d’America.

 

Le Forze Armate compiono rappresaglie durissime e brutali. Briganti o sospetti tali impiccati o fucilati senza uno straccio di processo, spesso abitazioni e interi villaggi vengono saccheggiati e incendiati e donne indifese vengono stuprate da individui che con il loro gesto disonorano l’uniforme del Regio Esercito.

Ma i briganti o, se così li vuoi chiamare, i ribelli, non sono sempre quei nobili patrioti duosiciliani descritti dalla storiografia antirisorgimentale. Se tanti legittimisti borbonici si danno alla macchia per difendere la loro Patria contro le Forze Armate italiane, se a loro si uniscono molti che avevano salutato con entusiasmo l’arrivo dei garibaldini ma che ora sono delusi dalla mediocre e a volte pessima amministrazione del nuovo Regno, se tra i capi dei briganti vi sono autentici comandanti guerriglieri meritevoli di rispetto ed ammirazione, come Carmine Crocco, di fatto nelle formazioni ribelli si trovano numerosissimi criminali che approfittano del caos per darsi al delitto. Il soldato, l’uomo delle Forze dell’Ordine e il civile di idee liberali o non abbastanza filo - ribelle che hanno la disgrazia di finire nelle mani dei briganti fanno quasi sempre una fine orribile, spesso dopo spaventose torture concluse da una atroce esecuzione. Omicidi, rapine, saccheggi e stupri sono innumerevoli, in quegli anni. Le cronache di quel tempo sono piene di simili atrocità e se alcune di questi possono certo essere state ingigantite o inventate dalla propaganda, non si può dubitare della ferocia e della crudeltà di quella guerriglia che per cinque lunghi anni minaccia la stessa esistenza della nuova Nazione.

 

Ninco Nanco forma con altri briganti una banda presto temuta per la sua spietatezza e si getta con entusiasmo in quell’orgia di orrore, divenendone ben presto uno dei più temuti e sanguinari protagonisti.

 

Lo Stato Italiano reagisce, tanto per cambiare, con contraddittorietà, oscillando tra feroci rappresaglie e offerte di amnistie e sconti di pena per i briganti “pentiti” che accettano di deporre le armi e arrendersi. Certo, qualcuno accetta di consegnarsi, ma per la maggior parte si tratta di appartenenti a bande minori e capi briganti di scarsa importanza, sino a che alla fine del 1862 si apprende che Ninco Nanco desidera consegnarsi con la sua banda.

Non so dirti come nasca questa voce, che probabilmente circola per giorni, forse per settimane, tra i villaggi e le cittadine lucane, in attesa di qualcuno che la ascolti.

Quel qualcuno è il delegato di Pubblica Sicurezza Costantino Pulusella, capo della Delegazione di Avigliano.

 

Di lui non ti so dire molto. 

Le cronache del tempo ci dicono che è vedovo e padre di un bambino. Forse è piemontese, di certo settentrionale. Ma perché un poliziotto del Nord finisce ad Avigliano che a quel tempo è lontana come la luna ed appare sicura quanto la moderna Bagdad?

Allora come oggi i poliziotti vengono distribuiti su tutto il territorio nazionale in base alle esigenze di personale delle Questure (e quale regione può essere più “esigente” della vulcanica Basilicata del 1863 ?) ma anche così, all’occhio smaliziato di un moderno, l’assegnazione del delegato Pulusella ad Avigliano ha tutto il sapore del trasferimento punitivo per far scontare al funzionario di Polizia chissà quale colpa o mancanza.

 

Che sia giunto in Basilicata per assegnazione o vi sia stato “deportato”, non è difficile immaginare qual è la sua vita. La delegazione di P. S. non sarà stata più di una stanza messa a disposizione dal Comune e nella quale il mobilio è costituito tutt’al più da una scrivania, un paio di sedie e di armadi e il ritratto del Re alla parete come unico elemento decorativo.

Ad Avigliano il delegato Pulusella non ha alle proprie dipendenze nemmeno una guardia di P.S., ma può disporre dei carabinieri, delle guardie nazionali (i membri delle formazioni paramilitari reclutate su scala locale) e dei soldati di stanza in paese. Spesso comanda i rastrellamenti e le ricerche dei latitanti sulle montagne, interviene sul luogo dei reati, interroga i testimoni che sono ostili o reticenti (i simpatizzanti dei briganti), furiosi perché hanno subito un crimine e lo Stato non è in grado di difenderli (i liberali) oppure semplicemente terrorizzati dai briganti (tutti gli altri). Scrive lettere su lettere al Prefetto di Potenza in cui descrive la situazione dell’ordine pubblico nella propria giurisdizione, segnalando la presenza dei briganti nella zona, chiedendo l’intervento e la presenza di altri militari. Nel frattempo si guarda alle spalle, soprattutto ad Avigliano, dove la Guardia Nazionale, è sospettata di legami con i briganti.

La sera scrive al figlio, rimasto affidato ai familiari al Nord, e al Ministero dell’Interno di Torino, al quale con burocratica disperazione implora il trasferimento.

Costantino Pulusella  è un uomo solo, arenato insieme alla propria carriera in un piccolo paese lontano da casa che non riesce e forse non vuole comprendere, un uomo stravolto dalla nostalgia e dal proprio fallimento professionale ed umano.

 

Questa ricostruzione della sua vita non è un mio volo di fantasia, ma l’unica spiegazione ragionevole per i fatali errori che il delegato Pulusella commetterà in seguito.

 

Quando scopre che Ninco Nanco vuole consegnarsi, Pulusella avvia un contatto con il brigante. Si tratta di uno scambio di lettere e poi una serie di contatti con gli emissari, i cui risultati fanno esultare il delegato: il pericoloso bandito intende consegnarsi nel corso di un incontro che dovrà avvenire in montagna, nei boschi di Lagopesole, al Passo del Merlo.

 

Il delegato compie il proprio dovere ed informa il Prefetto di Potenza della trattativa, ma l’alto funzionario del capoluogo, più smaliziato, pur autorizzandolo a continuare i contatti, lo avverte però di essere estremamente prudente. Lo fornirà di una lettera nella quale ai briganti viene garantita la vita e un processo benevolo, ma nulla di più. Ma Pulusella non lo ascolta, è troppo entusiasta, troppo felice. Troppo ingenuo.Il Prefetto riesce solo a farsi accompagnare da una scorta.

Pulusella, euforico, parla con il capitano Luigi Capoduro, comandante del drappello del 13° Reggimento di Linea di stanza ad Avigliano il quale, pericolosamente entusiasta quanto lui, accetta di accompagnarlo all’incontro con Ninco-Nanco. Portano con loro altri quattro militari, il sergente Luigi Menghini ed i soldati Lorenzo Biasi, Antonio Biscardi e Giuseppe Serra ed una guida, il contadino Leonardo Romano, esperto conoscitore della zona e il 12 Gennaio 1863 lasciano Avigliano diretti verso le montagne.

 

E’ proprio Leonardo Romano il protagonista sconosciuto di questa vicenda. Chi è ? Perché accetta di accompagnare il poliziotto ed i soldati all’incontro?

Alcune fonti, di molto successive ai fatti, ne parlano come di una guardia di PS in servizio presso la Questura di Palermo. Le cronache giornalistiche del tempo, tra le quali “il Manuale del Funzionario di Sicurezza Pubblica”, organo della Polizia di allora, lo definiscono “villano padre di numerosa prole”, ma nulla di più. A mio parere, questa comunque rimane l’ipotesi più credibile.

Perché accetta di accompagnare i soldati e il delegato Pulusella nei boschi? Per denaro? Certo non è molto, forse poche lire, le quali però fanno comodo in quell’inverno così gelido, specialmente in una famiglia affollata di bambini come quella del signor Leonardo per la quale, nella cattiva stagione, l’unico magro introito è la raccolta della legna secca e la caccia ai piccoli animali dei boschi.

Ma forse c’è altro, a convincere il signor Leonardo ad accompagnare la spedizione di Pulusella sulle montagne.

Non è esatto dire che tutti i civili nel Sud siano filo – briganti o comunque loro collaboratori. Ci sono cronache che raccontano di civili che si schierano insieme a militari e uomini delle Forze dell’Ordine, e non si tratta sempre di borghesi, ma anche di normali cittadini, di sarti, di calzolai, di contadini che combattono i briganti armi in pugno.

E’ quindi così difficile immaginare che il signor Leonardo accetti di accompagnare i soldati nei boschi, perché desideroso di farla finita con l’orrore di quella guerra interminabile, di quel massacro, di quel torrente di sangue e dolore che percorre la sua terra? Forse il signor Leonardo non si sente ancora italiano, ma certamente salendo sulle montagne con il delegato Pulusella decide di schierarsi dalla parte dello Stato. Non c’è altra spiegazione per ciò che gli accade in seguito.

 

Due giorni Pulusella ed i suoi accompagnatori non hanno ancora fatto ritorno in paese.

Un gruppo di soldati e guardie nazionali viene inviato alla loro ricerca e li trova due giorni dopo in una radura al Passo del Merlo. Sono tutti morti dopo spaventose torture. In seguito i giornali nazionali e “il Manuale del Funzionario” ricostruiranno i fatti nella loro atrocità.

 

Ninco Nanco e la sua banda accolgono amichevolmente Pulusella ed i suoi accompagnatori, offrendo loro cibo e vino in abbondanza per “festeggiare la resa”. Probabilmente Pulusella, troppo ingenuo per essere un poliziotto, è inebriato, più che dal vino offerto dai briganti, dalla prospettiva di uscire finalmente dall’esilio di Avigliano.

Non è difficile immaginare invece il signor Leonardo mentre osserva preoccupato i briganti che sghignazzando guardano di sottecchi i militari ed il poliziotto, scambiandosi frasi a mezza bocca e cenni della testa che allarmano il contadino, il quale avrà cercato di avvertire il capitano Capoduro, meridionale come lui e forse più sveglio di quell’ingenuo sbirro piemontese. Non ci riesce.

L’incontro è una trappola. Non si saprà mai se Ninco – Nanco abbia avuto davvero intenzione di arrendersi e abbia poi cambiato idea o se sin dal principio l’idea dei briganti è quella di catturare Pulusella e i soldati per lanciare un segnale di sfida allo Stato.

I briganti scattano all’improvviso, bloccando il delegato ed i suoi accompagnatori. Solo uno di loro, il soldato Biscardi, riesce a sfuggire alla cattura dei briganti ed a scappare nei boschi, ma viene inseguito ed ucciso.

E’ il più fortunato.

 

Poi tocca agli altri cinque. I briganti iniziano a “lavorare” su di loro con i coltelli, con studiata lentezza e ferocia e particolare attenzione ai volti e, certamente, si saranno divertiti particolarmente su Leonardo Romano, compaesano di Ninco – Nanco, “colpevole” di avere accompagnato il delegato ed i soldati.

 

Pulusella viene tenuto per ultimo.

 

Lo costringono a guardare il martirio dei propri accompagnatori che si conclude dopo ore, con un colpo d’arma da fuoco alla testa o con una lama alla gola, colpi di grazia inflitti non per misericordia ma soltanto perché ormai c’è poca soddisfazione a distruggere ciò che rimane delle loro vittime.

 

“Ora tocca allo sbirro!”

 

Pulusella è sconvolto e insieme rassegnato. Sa che la colpa del massacro è sua. Ha condotto sei uomini al macello. Ha fallito ancora, questa volta definitivamente e i briganti ormai ubriachi di vino e di sangue glielo rinfacciano divertiti. Forse Costantino Pulusella cerca di morire bene, ma è difficile farlo quando ti inchiodano le mani al terreno per poi torturarti con i coltelli. Lentamente, molto lentamente.

Nemmeno lui ha la misericordia di una morte veloce.

 

All’alba del 15 Gennaio, i soldati recuperarono i corpi orrendamente straziati di Pulusella, dei militari e di Leonardo Romano, che vennero trasportati a valle e sepolti nella cittadina di Atella dove, almeno sino al terremoto del 23 Ottobre 1980, esistevano le lapidi funebri che ricordavano i cinque soldati uccisi al Passo del Merlo.

 

Giuseppe Nicola Summa detto Ninco – Nanco, fu ucciso nel 1864 dalla Guardia Nazionale di Avigliano, ufficialmente in un conflitto a fuoco ma, secondo una voce inquietante, per impedirgli di raccontare delle complicità con i briganti da parte del locale comandante della Guardia, Benedetto Corbo.

 

Il nome di Costantino Pulusella, troppo ingenuo per essere poliziotto, ma che pagò il proprio fallimento oltre ogni limite,  è oggi ricordato insieme a quello degli altri Caduti della Polizia su una delle oltre duemila lapidi presso il Sacrario di Roma. Al suo fianco c’è quella del signor Leonardo Romano “villano padre di numerosa prole” morto con lui ed i soldati del capitano Capoduro a Lagopesole.

Non credo che l’inserimento di quel nome sia un errore. Mi piace pensare che, forse già nell’800, un anonimo burocrate ministeriale abbia deciso di onorare il signor Leonardo inserendo il suo nome nell’ elenco dei Caduti e da qui nel Sacrario, dove merita di restare per sempre.

Perché è un omaggio ad un Uomo che scelse da che parte stare, sino alle estreme conseguenze.

Come fece Primo Zecchi, ucciso nel 1990 a Bologna dalla banda della Uno bianca perché testimone di una rapina.

Come fece P.N., testimone nel 1990 dell’assassinio del giudice Rosario Livatino da parte della mafia di  Agrigento e che da allora vive sotto protezione.

Come fece Libero Grassi, ucciso nel 1991 dalla mafia a Palermo per essersi ribellato al racket.

 

Uomini che, come Leonardo Romano, scelsero di essere Cittadini.

 

Per la Redazione Cadutipolizia: Fabrizio Gregorutti

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