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La Città Nera (La Battaglia di Dire Daua, Etiopia 29 Marzo 1941) Il maresciallo Renato Donsanto giunge nell’Impero italiano d’Etiopia nel 1939. Destinazione: questura dell’Harrar, ufficio commissariale di Dire Daua, una città dell’Etiopia Orientale, sorta all’inizio del’900 lungo la ferrovia che unisce la capitale Addis Abeba al porto di Gibuti, nella Somalia Francese. Dire Daua è divisa in due quartieri, anzi in due vere e proprie città costruite secondo i criteri dei centri urbani coloniali di allora, abitate rispettivamente da europei ed indigeni. La città “bianca” è costituita da villette immerse in bellissimi giardini tropicali e di edifici che nelle intenzioni dei nostalgici costruttori dovrebbero richiamare le costruzioni europee. Gli africani, invece, abitano sulla riva destra del Laga Daciatù, il torrente che taglia in due Dire Daua, e la trasformano nella cosiddetta “città indigena” o “città nera” di Magalo, un quartiere caotico e pittoresco, cresciuto intorno alla piazza del mercato. La piantina di Dire Daua pubblicata dalla Guida dell’Africa Orientale Italiana della C.T.I. nel 1938, due anni dopo la nostra conquista, mostra una città “bianca” con strade dai nomi italiani, come il Viale Vittorio Emanuele III Re Imperatore, il Viale Benito Mussolini, le vie Maresciallo Badoglio, Maresciallo Graziani, le vie Principe e Principessa di Piemonte, Regina Elena etc.. Un piccolo pezzo d’Italia monarchica e fascista trapiantata ai Tropici, destinato a svilupparsi sotto il dominio italico, faro di civiltà eccetera. La Guida parla del futuro di Dire Daua e della Città Bianca, con la costruzione di un quartiere operaio ad Ovest e l’edificazione di numerosi edifici pubblici, destinati però ai nuovi padroni italiani ed agli immigrati che giungeranno dalla Penisola. Senza la guerra ormai alle porte Dire Daua sarebbe diventata un posto fantastico dove vivere. Per un bianco, ovviamente. Il maresciallo Renato Donsanto riceve il comando della Stazione PAI di Magalo. Con una dozzina di agenti italiani ed africani ai suoi ordini deve tenere d’occhio quel pittoresco quartiere indigeno stretto tra le colline e le rive sabbiose del torrente. La sua fortuna è di trovare collaboratori come la guardia Pierino Meneghetti, un giovane poliziotto padovano arrivato pochi mesi prima di lui in Africa, ma che è già diventato un esperto della lotta al crimine nella regione. Le rogne peggiori di Magalo vengono dalle bande di sciftà, i predoni armati di lance e di fucili del vecchio esercito etiopico, spesso strafatti di khat, la droga locale, e che assaltano le carovane e le greggi dirette verso il mercato della Città Nera. A volte ci scappa anche il morto, magari qualche povero cristo di pastore che viene ammazzato mentre cerca di difendere le proprie bestie. L’Italia fascista, esportatrice di civiltà tra le tenebre africane eccetera, non può tollerare che un mucchio di predoni metta in pericolo la sua autorità anche negli angoli più sperduti dell’Impero ed il maresciallo Donsanto insieme ai suoi uomini, italiani ed africani, viene incaricato della caccia agli sciftà, che insegue nelle savane e sulle colline che circondano Dire Daua, guidato dagli esperti ascari della stazione di Magalo, come l’eritreo Destà Zilanun e il somalo Fara Ersi, due giovani guerrieri che hanno scelto di entrare nella PAI per fare un balzo nella scala sociale della colonia. Per il resto la Città Nera è tranquilla. Oltre alle bande di sciftà, ci sono solo le liti tra i commercianti della Piazza del Mercato, alcuni ladruncoli e qualche idiota di europeo della Città Bianca che viene a Magalo per fare una visita ai bordelli e, dopo essersi sconvenientemente ubriacato, viene ripulito per benino dalla ragazza che si è scelto per la notte. Niente di speciale, in confronto alla guerriglia che gli uomini della PAI combattono in altre regioni dell’Impero. Qualunque sia il motivo che lo ha portato nella PAI e in Africa, Renato si innamora del Continente nero. Forse, come racconta Montanelli parlando della sua generazione, ha scelto l’Africa per sfuggire alla cappa soffocante di un’Italia conformista, irreggimentata nella divisa d’orbace, costretta ad adunate oceaniche e sabati fascisti anche nei più piccoli paesi di montagna e nella quale anche il più insignificante dei capifabbricato si comporta da tronfio gerarca. L’Africa è diversa. L’Africa è un luogo nuovo, dove un uomo può costruire il proprio avvenire, senza dover rendere conto a nessuno che non sia se stesso. Un giorno Renato Donsanto pronuncia con un sorriso sulle labbra la frase che centinaia di europei in Africa hanno già detto prima di lui. “ Io non tornerò più” Inizia a cercare una casetta nella Città Bianca, dove far vivere la famiglia, quando questa arriverà dall’Italia. Ma arriva prima la guerra. L’Impero che Mussolini ha riportato sui Colli Fatali dell’Urbe crolla come un castello di carte dopo poco più di otto mesi di conflitto. Nei primi mesi del 1941 gli inglesi lanciano una potente offensiva che costringe le truppe italiane a ritirarsi verso Addis Abeba e l’ultimo ridotto italiano di Gondar. I militari italiani si ritirano anche da Dire Daua. Gli inglesi sono alle porte, tra pochi giorni saranno in città. Ma non è questo è il peggio. Molti ascari delle truppe coloniali hanno preferito disertare per ritornare nei villaggi d’origine. Ma ve ne sono centinaia di altri che si stanno dando al saccheggio dei villaggi indigeni intorno a Dire Daua, dove giungono anche i profughi sconvolti dalle razzie, dagli incendi, dagli stupri, dagli omicidi commessi dagli sbandati. Gli abitanti, bianchi e neri, di Dire Daua guardano sconvolti all’orizzonte i villaggi in fiamme e comprendono che ora toccherà a loro. Renato riceve l’incarico di proteggere la Città Nera. Gli affidano sette agenti nazionali della PAI, una decina di ascari di Polizia e altrettanti civili italiani nominati guardie ausiliarie di Polizia. A completare il formidabile schieramento vengono aggiunti cinque vigili urbani etiopi che, sino a poche ore prima, non si sono occupati di nulla di più pericoloso delle liti tra i commercianti di karkadè di Piazza del Mercato. In totale 34 uomini che dovranno proteggere quasi 20.000 civili, uomini, donne e bambini. Un compito da fare tremare i polsi a chiunque. I primi disertori piombano su Magalo il mattino del 26 Marzo dandosi al saccheggio delle abitazioni della periferia e dei negozi, con particolare attenzione alle rivendite dei liquori. Gli uomini della PAI per tre giorni percorrono senza sosta ogni angolo della Città Nera e, un po’ con le buone, e molto con le cattive, distribuendo abbondanti calci nel sedere, robuste legnate e colpi di curbasc (il pesante scudiscio usato dai sottufficiali africani delle truppe coloniali) sulle schiene dei più riottosi, disarmano più di 300 predoni che ributtano fuori da Magalo. Quella che hanno respinto però è una marmaglia troppo stupida o troppo indisciplinata, per essere accettata anche dagli stessi predoni. Il vero pericolo sta per arrivare ora, annunciato dagli incendi dei villaggi e delle piantagioni lungo la valle del torrente Laga Arrè. Gli abitanti della Città Nera si barricano terrorizzati nelle loro abitazioni, prevedendo il peggio. Renato decide di colpire per primo. Sceglie di bloccare i predoni al guado del Laga Arrè, il passaggio obbligato per chi vuole raggiungere Dire Daua da est. Quindi, dopo avere armato i vigili africani con i fucili sequestrati ai ribelli, dispone i propri uomini per la difesa dietro ai ripari naturali offerti dalle rive del guado. Non ci sarà nessuno da arrestare, quel giorno. Sarà lotta per la vita. La battaglia inizia nelle prime ore del 29 Marzo 1941. Quella trentina di uomini guarda sbigottita la massa umana proveniente dalle colline. Sono centinaia. Alcuni sono veri e propri sciftà, vestiti con lo sciamma, il mantello bianco tipico delle popolazioni dell’Africa Orientale, ma tanti, forse la maggior parte sono i disertori ascari riciclatisi come predoni. La maggior parte indossa ancora le uniformi delle truppe coloniali del Regio Esercito. Altri sono ubriachi e drogati dal khat e sparano in aria, urlando e sghignazzando, pregustando le razzie da compiere e le donne da stuprare. “Figli di puttana!” ringhiano in lingua amhara gli ascari di Polizia al comando di Renato, il quale sussurra ai suoi uomini “Calmi… prendete bene la mira….calmi…aspettate che siano a tiro….calmi…” poi, non appena la maggior parte dell’avanguardia dei disertori è in mezzo al guado del Laga Arrè urla “FUOCO!” I predoni vengono falciati dalla scarica dei MAB e dei moschetti ’91 e dalle bombe a mano scagliate dai difensori della Città Nera. Almeno una decina di sbandati crollano morti o feriti nel fiume. Renato ed i suoi uomini continuano a sparare ed altri disertori vengono abbattuti mentre cercano di porsi al riparo sulla riva opposta, da dove i loro compagni sparano all’impazzata verso gli agenti della PAI. Te l’ho detto. Non è un’operazione di polizia. E’ guerriglia del tipo più sporco. E’ violenza pura, ma è l’unica cosa che può salvare la Città Nera. Muoiono decine di predoni, ma cadono anche gli uomini della PAI, i quali combattono disperatamente sulle rive del guado, resistendo ai continui assalti dei disertori, appoggiati dal fuoco di ben due mitragliatrici. Muoiono tre agenti ausiliari della PAI, Garibaldo Bandinelli, Vincenzo Bonifacio e Michele Stardero. Erano negozianti ed operai, arrivati in Africa per fare quattro soldi e che, al momento della ritirata dell’Esercito erano diventati poliziotti, forse riluttanti, perché al momento della ritirata non sono riusciti a scappare, forse per quello strano istinto che viene chiamato senso del Dovere. Muore l’ascari di polizia Destà Zilanun, ucciso da un proiettile mentre cerca di scagliare una bomba a mano contro gli assalitori. Muoiono quattro dei cinque vigili urbani etiopi, uccisi mentre difendono la Città Nera, sparando con dei moschetti che magari non sanno nemmeno usare, ma che ugualmente hanno scelto di mettere in gioco la loro vita per salvare uomini, donne e bambini. Muore la guardia Pierino Meneghetti. Il giovane agente è l’anima della battaglia. Si muove da una parte all’altra delle posizioni tenute dai difensori di Magalo, portando il suo aiuto dove c’è più bisogno di lui. Quando una delle difese sta per essere sopraffatta dai ribelli accorre in soccorso dei colleghi, ma viene colpito da una prima scarica di mitragliatrice. Gli altri agenti cercano di portarlo al riparo ma Meneghetti, tentando di tamponarsi la ferita al ventre, li ferma gridando “No, non pensate a me… non è niente…”. Il rapporto del maresciallo Donsanto racconta che Meneghetti riesce ad alzarsi in piedi e a correre verso il rifugio degli altri agenti, imbracciando la propria arma. Non ci arriverà mai. Una seconda raffica lo investe in pieno petto. Renato nel suo rapporto racconta che prima di morire la guardia Pierino Meneghetti riesce a gridare “VIVA L’ITALIA!”. Ha importanza se è riuscito davvero a gridarle, quelle tre parole? Il combattimento dura per ore, sino a che intorno alle due del pomeriggio i ribelli comprendono che non riusciranno mai a sfondare e decidono di puntare verso la Città Bianca. La resistenza dei poliziotti sul Laga Arrè ha salvato Magalo. “Ce l’abbiamo fatta!” grida qualcuno degli italiani. Renato scuote la testa. Sono riusciti a respingere gli assalitori, ma non è certo che saranno così fortunati in futuro. Paradossalmente l’unica speranza ora sono le truppe inglesi, ferme da due giorni a nemmeno venti chilometri da Dire Daua. Dopo avere affidato ad un medico l’ascari di Polizia Fara Ersi, che ha una gamba trapassata da una pallottola, Renato raggiunge la Città Bianca, dove si combatte nelle strade della periferia e qui parla con il suo comandante della necessità di fare arrivare in fretta gli inglesi a Dire Daua. I civili italiani della Commissione di Resa che dovrebbe consegnare la città ai britannici sono troppo terrorizzati dagli scontri per mettere il naso fuori di casa, figurarsi se hanno il coraggio di farsi venti chilometri di strada in mezzo ai ribelli. Gli uomini della PAI decidono di esautorarli e Renato, un capitano e una guardia ausiliaria attraversano la pericolosa periferia della Città Bianca, rischiando continuamente di farsi ammazzare prima dagli sbandati e poi dalle truppe inglesi. Con parecchia fatica i tre poliziotti riescono a convincere i riluttanti britannici, che pensano ad una trappola, della necessità di inviare dei soldati a proteggere i civili di Dire Daua. Gli inglesi concedono un paio di autocarri carichi di soldati ed un paio di autoblindo armate di mitragliatrice, più che sufficienti comunque per scacciare i ribelli e salvare le poche centinaia di italiani, poliziotti e civili, asserragliatisi nel Ghebbì, l’edificio governativo della Città Bianca. A Renato rimane l’amaro compito di seppellire i propri morti. La guardia Pierino Meneghetti e gli agenti ausiliari PAI Vincenzo Bonifacio, Garibaldo Badinelli e Michele Stardero vengono sepolti nel cimitero europeo della Città Bianca di Dire Daua, mentre l’ascari di polizia Destà Zilanun ed i vigili africani caduti nella battaglia vengono affidati all’imam musulmano ed ai preti copti della Città Nera. Quei nove uomini, Caduti insieme, sono separati nella morte dal colore della loro pelle. Ma agli abitanti della Città Nera, salvata dal sacrificio di quei nove improbabili difensori, non importa. Prima che Renato raggiunga il campo di prigionia, centinaia di abitanti raggiungono la Stazione PAI di Magalo per ringraziare lui ed i superstiti della battaglia di quanto hanno fatto. La Città Nera è salva, grazie a Renato e agli uomini della PAI. Ne valeva la pena, pensa Renato mentre gli inglesi lo fanno salire a bordo del camion diretto verso la prigionia. L’agente Pierino Meneghetti venne decorato di Medaglia d’Argento al Valor Militare per l’eroismo dimostrato durante la battaglia per Magalo. Peccato che la motivazione della sacrosanta decorazione parli di lui come impegnato “ A difesa della vita e dei beni di connazionali in un presidio A.O.I…..”. Probabilmente anche per la Repubblica nata dall’antifascismo, non sembrava esaltante decorare un poliziotto morto ammazzato per difendere migliaia di “negri”, meglio quindi raccontare una patriottica panzana. Renato non ritornò mai più in Italia. Morì il 31 Ottobre 1945 nel campo di prigionia di Fort Victoria, in quello che oggi è lo stato africano dello Zimbabwe. Renato Donsanto riposa ancora oggi laggiù, in quella che è anche la sua Africa. Dopo la battaglia delle Termopili, dove trecento spartani caddero perché la Grecia sopravvivesse, sul luogo del loro sacrificio venne posta un’epigrafe, opera del Poeta Simonide di Ceo.
« ὦ ξεῖν', ἀγγέλλειν Λακεδαιμονίοις ὅτι τῇδε
« O viandante, annuncia agli Spartani che qui, Che dici? Queste parole possono valere anche per gli uomini che caddero per difendere la Città Nera? (fonte principale: rapporto ufficiale del maresciallo Renato Donsanto, scritto dopo la battaglia del Laga Arrè)
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