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IL TRENTESIMO PRIGIONIERO (la guardia di PS Mario Bolognatto.)
Udine, 9 Aprile 1945. L’aria nel sotterraneo puzza di umidità, di piscio, di sangue e di paura. Ventinove degli uomini rinchiusi nelle celle non vedono il sole da mesi, se non quando gli uomini della Ordnungspolizei tedesca li vengono a prelevare nelle celle, li portano negli uffici della direzione e lì li massacrano di botte, per costringerli a parlare ed a tradire i compagni di lotta. Non ci sono riusciti. Nessuno dei ventinove ostaggi ha parlato. Tra loro è il comandante partigiano comunista Mario Modotti, nome di battaglia “Tribuno”. E’ stato uno dei primi a salire in montagna ed a combattere contro i tedeschi. E’ una leggenda tra i partigiani friulani, non solo quelli comunisti, tanto da diventare comandante della brigata unificata “Ippolito Nievo” che raccoglie combattenti comunisti, cattolici, monarchici, azionisti e repubblicani, uniti insieme per la lotta di Liberazione. E’ un uomo onesto, un puro, un comandante con un carisma quasi senza eguali nel panorama della Resistenza. E’ il primo a gettarsi nella lotta e l’ultimo ad uscirne. Sono riusciti a catturarlo soltanto grazie al tradimento di un altro italiano e lo hanno rinchiuso prima alla “Piave” di Palmanova, una caserma di cavalleria del Regio Esercito diventata dopo l’8 Settembre 1943 uno dei più terrificanti centri di tortura dell’Italia settentrionale. Nelle grinfie di aguzzini psicopatici gli uomini e le donne della Resistenza vengono sottoposti alle più feroci sevizie. Qualcuno confessa, sopraffatto dalle sofferenze, alcuni muoiono mentre il loro corpo viene martoriato, violato, massacrato, altri non parlano. Come il comandante “Tribuno” il quale, pur sottoposto a durissimi interrogatori, non confessa. Alla fine gli aguzzini della “Piave”, comprendendo di non riuscire a piegarlo lo consegnano ai padroni tedeschi. Anche gli uomini della Ordnungspolizei cercano di farlo parlare, con torture che farebbero fremere di orrore un inquisitore medievale, ma non ci riescono. “Tribuno” subisce dieci spaventosi interrogatori ma non tradisce, anzi mentre gli altri partigiani vengono condotti alla tortura li esorta a gran voce a non tradire, a non mollare . Alla fine i tedeschi si arrendono, lo fanno condannare a morte da un grottesco tribunale speciale che giudica insieme a lui altri partigiani. Insieme a lui vengono condannati a morte altri ventisei partigiani comunisti della “Garibaldi” e due partigiani cattolici della “Osoppo”. “Tribuno” nella sua cella, scrive l’ultima lettera al suo bambino. E’ ancora dolorante per le torture inflitte ed ogni movimento della matita sulla carta gli provoca delle fitte lancinanti e mentre scrive cerca di ricacciare indietro le lacrime e di mandare giù quel groppo che gli è rimasto in gola, ma manda l’ultimo messaggio al figlio bambino. Lo esorta a lottare contro le ingiustizie, a diventare un patriota, a essere un uomo onesto. Poi chiude gli occhi e sogna di essere con sua moglie e suo figlio sulle rive del Tagliamento, il giorno di una Pasqua di mille anni prima, quando la guerra non esisteva e il comandante “Tribuno” era solo Mario, marito e padre.
La guardia di P.S. Mario Bolognatto apre gli occhi e, maremma maiala, è ancora lì, rinchiuso nel maledetto carcere di Udine. Non ci credo, pensa con rabbia e disperazione. Non è giusto. Guarda incredulo la sua cella, il tavolaccio sul quale è costretto a dormire da settimane, il bugliolo dove lui e i suoi compagni di sventura sono costretti a fare i loro bisogni. Pensa alla sua domanda di grazia che è stata rigettata. Pensa che oggi morirà. E’ andato tutto storto sin dall’inizio. Quando lo avevano destinato ad Udine, prima dell’8 Settembre, era stato contento. Città piccola, lontana dal raggio d’azione dei bombardieri anglo americani, con una criminalità formata da qualche ubriacone molesto e da qualche ladro di galline. Niente a confronto con i suoi paricorso finiti in Dalmazia o in Slovenia o giù in Sud Italia, dove il raggio d’azione dei bombardieri Alleati si faceva sentire. Poi con l’8 Settembre la situazione è precipitata anche a Udine. Qualche collega ha tagliato la corda, cercando di raggiungere la famiglia al Sud, altri hanno cominciato a collaborare con i nuovi padroni tedeschi, altri ancora hanno raggiunto le montagne unendosi a gruppi di militari sbandati e di antifascisti che dicevano di voler lottare contro i nazisti. Mario aveva preferito rimanere in una posizione di attesa, come la maggior parte dei colleghi della Questura di Udine. Sempre a lottare contro i rubagalline e mai interessarsi di politica. Sì, certo…. Ha sentito un sapore di bile nel vedere i vagoni piombati con i militari del Regio Esercito passare dalla stazione di Udine, diretti verso i campi di prigionia in Germania e ha fatto finta di non vedere le coraggiose donne udinesi mentre porgono dei piccoli fagottini contenenti cibo e acqua ai soldati le cui mani si sporgono dalle finestrelle dei vagoni bestiame. Niente politica, niente di niente, anche quando nell’estate 1944 le SS e la Gestapo hanno circondato la Questura, arrestando il questore Cosenza e molti colleghi che collaboravano con la Resistenza. Mario li ha visti portare via e caricare anche loro sui vagoni piombati. E’ riuscito ad avvisare un paio di famiglie dei colleghi deportati, ma non è riuscito a fare nient’altro. La sera, quando è smontato dal servizio, tutto ciò che è riuscito a fare è stato di pigliarsi una sbronza spaventosa in una osteria cercando di dimenticare gli occhi spalancati per la paura dei suoi amici trascinati verso l’ignoto. Poi è arrivato il nuovo questore, un fanatico che ha coinvolto anche la Questura nella lotta antipartigiana. Il risultato? A fine agosto 1944 un torpedone della Polizia all’inseguimento dei partigiani cade in un’imboscata. Quattro colleghi restano uccisi. Altri poliziotti muoiono in altri combattimenti ed agguati con i partigiani e di altri non si ha più notizia. Sono stati uccisi o hanno disertato? Mario ha continuato a lavorare. Ancora rubagalline e borsaneristi da buttare in galera, i soccorsi alle vittime dei bombardamenti, i posti di blocco sulla strada Pontebbana. E’ qui che ha chiuso gli occhi sui partigiani che entrano ed escono dalla città, sui prigionieri alleati evasi dai campi di concentramento, sugli ebrei in fuga da Trieste e Gorizia. In questura non ha tradito i colleghi che collaborano con la Resistenza, ma questo è tutto e d’altra parte Mario non se la sente di fare di più. Non si è mai considerato un vile, ma dopo aver visto i suoi amici trascinati in Germania non se la sente di fare l’eroe. Dopotutto la guerra finirà presto, no? Quindi a che pro rischiare la pelle inutilmente? Poi un giorno accade. Lo ricoverano all’ospedale militare per quella che fondamentalmente è una malattia di poco conto ed è lì che all’improvviso, mentre è a letto lo coglie un allarme aereo. Si alza dal letto in fretta e furia, indossa rapidamente i suoi pantaloni e mentre corre verso il rifugio, afferra un paio di scarponi posti accanto al letto. Appena all’esterno si accorge che inavvertitamente ha preso gli scarponi di un soldato tedesco ricoverato un paio di letti più in là del suo. Accidenti che comodi, pensa tastando il morbido cuoio delle calzature. Non riuscirà mai ad indossarli. Incurante del continuo allarme antiaereo il soldato tedesco ricoverato si mette a strillare come un’aquila, lo insegue e lo indica ad una pattuglia della Feldgendarmerie che lo arresta. Con buona pace di chi a quasi settant’anni dalla fine della guerra sostiene ancora oggi che la RSI fosse un governo indipendente dalla Germania e che la sua esistenza servì a difendere gli italiani dai soprusi tedeschi, Mario viene scaricato del tutto dalle autorità italiane che lo abbandonano in mano al vero potere, la Germania. E’ così che l’agente Mario Bolognatto, poliziotto di un Paese alleato, subisce una farsa di processo da parte del Tribunale Speciale del Litorale Adriatico, il supremo organo “giuridico” del III Reich nel Friuli e nella Venezia Giulia, le regioni italiane annesse alla Germania nazista. Mario osserva basito il processo, nel quale il suo cosiddetto “difensore” non si dà da fare per il suo assistito, accogliendo annoiato la sentenza: la morte mediante impiccagione. Mario è incredulo e devastato. Dio mio! La condanna a morte per due maledetti scarponi? Non può essere vero. Non può assolutamente essere vero. Sicuramente gli concederanno la grazia, certo… anche se sono tedeschi non possono impiccarlo per un paio di scarpe. Lo rinchiudono nel carcere di Via Spalato, nella stessa prigione dove sono prigionieri “Tribuno” e decine di altri partigiani. All’inizio Mario e gli uomini di “Tribuno” non si parlano nemmeno. Il primo è schiantato dal peso della condanna, spera ancora nella grazia e non vuole compromettersi con i “ribelli” i quali considerano Mario come un collaborazionista e lo isolano, poi, pian piano tra alcuni partigiani ed il poliziotto arrestato inizia un dialogo. Comincia con lo scambio di una sigaretta, con poche parole scambiate tra una cella e l’altra, con le fotografie delle famiglie (“questa è mia moglie, siamo sposati da sei anni” “la mia bambina…è nata a dicembre e ancora non l’ho vista. Non la conoscerò mai…” “la mia fidanzata, ci dovevamo sposare a guerra finita ”) e continua con lo sfogo di chi sa di essere condannato a morte. Mario racconta la sua tragedia e ascolta i racconti dei suoi compagni di prigionia. Rispetta il loro coraggio e il loro valore e lentamente, nel corso di quei lunghissimi giorni di prigionia, Mario riesce a trovare la forza per non crollare psicologicamente, anche quando il maresciallo della Ordnungspolizei tedesca, con un ghigno, gli annuncia che la domanda di grazia gli è stata respinta. Mario rimane per ore steso sul tavolaccio della propria cella a fissare il soffitto, per impedirsi di pensare e per non udire i rumori dei tedeschi che, nel cortile della prigione stanno costruendo il patibolo.
Il maresciallo tedesco spalanca la porta della cella e ad alta voce annuncia “Modotti!” “Tribuno” si alza in piedi rassegnato e stringe le mani ai suoi compagni “Arrivederci, ragazzi…” “Arrivederci, comandante” poi esce dalla stanza. Passa accanto alla cella di Mario che lo guarda dallo spioncino e gli sorride stancamente “Non mollare, Bolognatto!”. Mario lo vede svoltare a destra e scomparire in fondo al corridoio, scortato dal maresciallo e da altri tre uomini della Ordnungspolizei. Due minuti dopo sente il grido del comandante “VIVA L’ITALIA LIBERA!” e poi la scarica del plotone di esecuzione. Mario sente altre scariche. I tedeschi passano a prelevare i condannati a morte anche nella sua stessa cella e poi tocca a lui. “ “Boloniato!” ” il maresciallo, che sembra divertirsi un mondo, storpia il cognome di Mario. Mario si alza in piedi. Guarda la cella ormai vuota e guarda fisso il maresciallo. “Andiamo” e si sorprende di come la sua voce sia ferma e chiara. Escono nel corridoio e rimane sorpreso dalle voci degli altri partigiani che verranno fucilati tra poco “Coraggio!” “Non mollare!” “Forza!” e ad ogni passo scopre con sorpresa di non avere più paura. Svoltano a destra, in fondo al corridoio poi il maresciallo apre una porticina metallica ed escono nel cortile. C’è un bellissimo sole di primavera. (per la redazione di Cadutipolizia.it Fabrizio Gregorutti) Commenta nel forum QUI |