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IL RAGNO DELLE ROCCE
– La guardia di P.S. Vincenzo Cozzolino-

di Gianmarco Calore

Lassù per le montagne

tra boschi e valli d'or

fra l'aspre rupi echeggia

un cantico d'amor.

"La montanara, ohé!"
si sente cantare,
"cantiam la montanara,
e chi non la sa?".

Là su sui monti dai rivi d'argento
una capanna cosparsa di fior
era la piccola, dolce dimora
di Soreghina, la figlia del sol.

Quante volte l'avrai cantata, questa canzone, Enzo? Quante nottate trascorse nel caldo tepore di una baita, scaldato dalla vicinanza degli amici bramosi di sapere delle tue ultime gesta tra le crode e con una bella tazza di vin brulè bollente a rinsaldare quei rapporti schietti e sinceri, come solo quelli nati in montagna possono essere....

Ti do del “tu”, Enzo, perchè tra noi alpinisti il “Lei” non esiste. Di fronte alla montagna non ci sono caporali: siamo tutti soldati. Lo ha detto un altro grande Uomo della Montagna, Mauro Corona. Ed è la più sacra delle verità. Il vincolo che ci lega è come la corda che usiamo per arrampicare: salda, presente, pronta a tutto, anche a quei “tiri” del diavolo, quando voli giù e ti sembra di sentirti le budella in gola. Ma certo che tra pochi millesimi di secondo sentirai l'inconfondibile “CLACK” della ritrovata trazione, uno schiocco che ti fa rimbalzare in alto ma che ti ha salvato la vita. Poi, quel momento di silenzio imbarazzato e subito l'inevitabile, ironica, sferzante battuta del compagno che ti fa sicurezza venti metri sotto....
 

“Ouh, Icaro, che ti sono spuntate le ali?”....

Ti chiamavano il “Grongo”, quei burloni dei tuoi amici... Come quel pesce dal mento pronunciato, volitivo, temuto e dal carattere scontroso... ma timido. Non ti ho mai conosciuto: quando sei morto, per pochi giorni dovevo ancora nascere. Ma di te ho letto molto, in questo periodo. Sarà perchè sul Civetta ci sono stato tante volte anche io, magari passando proprio per dove tu un bel giorno hai voluto vedere se le ali ti erano spuntate davvero. Sarà perchè la montagna suscita sempre ammirazione in chi la domina, mai invidia. Perchè sai che quel dominatore un giorno potrà essere quello che ti salverà la vita. Quando arrampicavi, chi veniva con te doveva sgambettare come uno stambecco perchè tu, capocordata, dall'alto lo guardavi con compassione e da sotto quei baffi ti spuntava un sorriso flemmatico:

“Dai, vien su che xe tardi!”

Era sempre tardi, per te.... Profondo contestatore dei bivacchi in parete, l'arrampicata doveva essere un unico insieme di sensazioni mai interrotte. E la montagna per te era come una splendida donna, da non ferire nemmeno con un chiodo: quei pochi che eri costretto a piantare ti costavano sofferenza:

“Qua lassemo un ciodo de terazìn, cussì se vedi che la via la passa de qua”.

Giovane pazzo! Quante corse, con quella Gilera 250 su e giù dai tornanti per arrivare presto all'attacco della via! A bordo, tu, il tuo compagno d'avventure, un bagaglio assortito con due corde, 5 chiodi e qualche rinvio. Poche cose. Ma indispensabili. Manco la fettuccia ti portavi al seguito, perchè...

“Dove che no xe passa co le man, xe passa co le gambe!”

In quegli anni non esisteva quel turismo di massa che inquina oggi ogni landa montana e che ti avrebbe fatto uscire di senno: l'alpinismo era ancora vissuto con rispetto e dedizione. In montagna o ci sapevi andare o stavi a casa. E la vetta te la dovevi guadagnare da lontano, con ore di scarpinate veloci per raggiungerla attraverso boschi, ghiaioni, mugaie dove l'aria d'estate è più calda di una fornace: mica come oggi, che trovi impianti di risalita piantati ovunque, con frotte di umani urlanti, col suv parcheggiato dietro al tornante e col cellulare perennemente attaccato all'orecchio!

La tua umiltà non ti fece accorgere di avere superato difficoltà ritenute estreme: il sesto grado superiore non ti nascondeva più misteri. Ora ti avventuravi sui lunari 6c/7a, con tanti che scommettevano che non ce l'avresti fatta. Ma mai con cattiveria: solo perchè quel diedro liscio come il culetto di un bambino, dove la gravità ti afferrava maligna con le sue manine avide e predaci per trascinarti con sé nell'abisso non lo avrebbe passato nessuno, manco con le ventose... Nessuno, tranne te. E lo scandalo che creasti quando per primo mandasti in pensione le ormai attempate brache alla zuava e gli scarponi di cuoio, preferendovi i primi fuseaux aderenti e le scarpette da ginnastica: novello Noureyev delle montagne. E dove la falesia si faceva particolarmente dura, via! Anche a piedi scalzi! Con te i tempi di arrampicata si accorciarono sempre di più.

Fosti fiscale con te stesso anche in fatto di allenamenti: ti creasti la “dieta del fachiro”, per eliminare ogni grammo di grasso superfluo nel tuo corpo, finendo anche in ospedale con palpitazioni e capogiri da fame. Poche serate in rifugio con gli amici, assolutamente più nessuno stravizio con alcool, polenta e capriolo, strudel con la panna... Sessioni infinite di palestra, ogni movimento provato e riprovato fino allo sfinimento, fino a finire in sovrallenamento, con il medico che ti dovette “inchiodare” in casa per un mese.

Il tuo metodo ti portò a ripetere in solitaria numerose vie aperte dal grande Messner, che arrivò ad annoverarti nell'Olimpo degli Dei citandoti in un suo libro. Ma i libri erano fatti per le signorine, pensavi. Allora, giù ad aprire vie su vie: in invernale, d'estate, anche da solo quando non trovavi nessuno così pazzo da seguirti là dove solo un ragno avrebbe potuto avere la meglio.

Poi un giorno la tua vita cambiò, fratello d'Alpe. Diventasti anche un mio fratello di giubba. Il Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza, con quella meravigliosa e avveniristica scuola di addestramento alpino di Moena fece proprio al caso tuo. Diventasti allievo guardia, con lo stesso spirito di dedizione e sacrificio che mettevi nell'arrampicare. Il comandante della scuola ti prese subito in simpatia, accordandoti tutti i permessi necessari per recarti ad allenare nelle montagne circostanti: il tuo prossimo progetto, una nuova via sul monte Civetta. Quello stupendo e solenne monolito di roccia fatto a canne d'organo, dove Dio suonava le sue sinfonie stando seduto sul poco distante Pelmo, “el caregòn del Signore”, appunto...

Vi andasti una mattina, fratello. Da solo, come soli ci si reca al cospetto di Dio per raccontargli le proprie storie, le proprie paure, i propri propositi.

E non tornasti più.

Questa è la storia dell'allievo-guardia di P.S. Vincenzo Cozzolino, morto lungo la via denominata “Torre di Babele”, sul monte Civetta. Ne ho preparato la scheda, che tra poco verrà inserita qui su Cadutipolizia. E per un'altra volta, dopo la guardia Gino Grandis, me lo sono sentito vicino. Burbero, scorza dura ma cuore tenero, Enzo non voleva farsi trovare da noi. Me lo sono sentito dire all'orecchio:

“Pian, bòcia, ti me fa massa publicità e no va ben!”

Ma la sua storia andava ricordata. Con rispetto. Con onore. Perchè quando non trovi notizie da nessuna parte, manco presso chi quelle notizie avrebbe avuto il dovere istituzionale di conservarle, e poi all'improvviso ti imbatti in un libro, in una rivista che non leggi più da tanto tempo perchè ormai anche tu hai appeso la corda al chiodo e non arrampichi più.... ma proprio quel giorno passando davanti ad un'edicola ti fermi e la ricompri.... e proprio in quella rivista trovi un articolo su di Lui... beh, ragazzi, ditemelo voi cosa significa!

Cieli blu, Enzo. Hai trovato finalmente quella “capanna cosparsa di fior, piccola dolce dimora di Soreghina, la figlia del sol” che tante volte hai cantato.

Per la Redazione Cadutipolizia: Gianmarco Calore