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OMICIDIO VOLONTARIO - di Gianmarco Calore -
Milano. Via Bellotti, zona Porta
Venezia.
All'angolo con via Poerio c'è una lapide
di marmo. E' piccola, i caratteri sono
consumati dal tempo e dalle intemperie
che per oltre trent'anni l'hanno
flagellata. Essa reca inciso un nome che
a molti non dice più nulla: Antonio
Marino. E una data, ancora più
dimenticata: 12 aprile 1973.
La lapide non fornisce chiarimenti sul
nome che riporta, salvo che quest'uomo
era caduto mentre "in servizio garantiva
il rispetto della legge". Nulla di più.
Ad una lettura superficiale e distratta,
egli può essere chiunque: un militare,
un carabiniere, un vigile urbano, una
guardia giurata..... E caduto per cosa,
poi? Un attentato? Una sparatoria? Un
malore? Non si sa.
Antonio Marino era un Poliziotto.
Ma soprattutto era un ragazzino di 23
anni. Uno dei tanti giovani provenienti
dal Meridione che aveva scelto la
Polizia come proprio lavoro. Un ragazzo
la cui famiglia aveva già l'Uniforme nel
cuore, con un fratello Carabiniere.
Anche lui, fortunato possessore di un
lavoro sicuro; anche lui, uno dei tanti
che a 23 anni loro malgrado erano già
diventati uomini, quando invece
avrebbero potuto gustare le gioie della
vita come un qualsiasi altro
adolescente. Mandato in una regione
lontana, mensilmente spediva a casa il
vaglia con una parte della busta paga
per aiutare la famiglia a sbarcare il
lunario. E nel 1973 la paga di un
Poliziotto non arrivava alle centomila
lire.
Antonio entra in Polizia nel 1969. Viene
assegnato al 3° Reparto Celere di
Milano. Sono anni tormentati, violenti,
difficili per tutti, soprattutto per uno
con una divisa addosso: la contestazione
studentesca è già esplosa in tutta la
sua devastante portata e ad essa si è
affiancato il fenomeno del terrorismo
brigatista, subito contrastato da
rigurgiti neofascisti che stanno già
lasciando sul terreno morti, feriti,
persone "sprangate" e rese invalide per
colpa di un'ideologia. Le spedizioni
punitive si susseguono quotidianamente,
con i "rossi" a caccia dei "neri" e con
i "neri" a caccia dei "rossi". Così
non ci sono posti in cui ti puoi sentire
realmente al sicuro: nè la scuola, nè
l'università, nemmeno casa tua. Le
manifestazioni di piazza in questi primi
anni '70 sono sempre più violente: un
semplice sciopero di liceali patisce
sempre le infiltrazioni di gruppi
estremisti che strumentalizzano la
manifestazione per perseguire i loro
sordidi scopi di destabilizzazione. Il
nemico, quello di sempre: lo Stato. Un
crescendo di violenza che sfocerà nella
strage di Acca Larenzia nel 1978 e nel
terrorismo stragista di Fioravanti dei
primi anni '80.
Sono passati già alcuni anni dalla
"battaglia di Valle Giulia" del 1° marzo
1968 a Roma, quando lo Stato non capì il
fenomeno che iniziava a fermentare tra i
giovani continuando a considerarlo solo
un "fuoco di paglia" acceso da qualche
sconsiderato.
La lotta contro i "servi del potere" si
è fatta ora più metodica, più
scientifica. Alle spalle di ogni scontro
di piazza c'è una regia sempre più
attenta ai singoli dettagli, nulla viene
lasciato al caso: una regia che adesso
dispone di mezzi, di soldi e soprattutto
di armi. Tante armi. Non c'è
manifestazione in cui non faccia la sua
tetra comparsa la Walther P38,
pistola-simbolo della lotta di piazza
dura; e non c'è manifestazione in cui
non si spari, da una parte come
dall'altra. La cosa ormai non fa più
notizia: la gente è abituata a scappare,
asserragliandosi nei negozi o
chiudendosi in casa ogni volta che sente
una sirena della Polizia, così come
faceva appena trent'anni prima con le
sirene d'allarme per i bombardamenti.
Guerra mondiale ieri. Guerra civile
oggi. I morti, gli stessi.
Quel brutto 1973 si era aperto con
segnali molto preoccupanti per l'ordine
pubblico. Già il 31 maggio 1972, nella
famigerata strage di Peteano, tre
Carabinieri erano stati dilaniati da
un'auto-bomba per la quale ancora oggi
non è stato possibile risalire a
mandanti e a moventi definitivi, grazie
ad un continuo scaricabarile dall'uno
all'altro versante politico.
Molti stavano già parlando di una nuova
"stagione delle bombe" e Milano sembrava
essere diventata suo malgrado la
capitale politica di questo fenomeno. Il
7 aprile di quell'anno, appena cinque
giorni prima della morte di Antonio
Marino, c'erano già state prove di
strage: all’altezza della stazione
ferroviaria di Santa Margherita Ligure,
Nico Azzi del gruppo “La Fenice” di
Milano (la denominazione milanese del
movimento di estrema destra "Ordine
Nuovo"), si feriva nel tentativo di
compiere una strage sul direttissimo
Torino-Genova-Roma. Nell’innescare in
una toilette del treno due saponette di
tritolo militare da mezzo chilo, un
contatto, forse provocato da uno
scossone della carrozza, faceva
esplodere uno dei due detonatori.
L’attentatore con una gamba straziata
veniva immediatamente arrestato. Ma Nico
Azzi non aveva agito da solo. Con lui
erano stati notati alcuni giovani che
nei corridoi avevano a lungo ostentato
copie del quotidiano "Lotta Continua".
La strage, collegata ad altri attentati,
oltre che gettare il Paese nel panico e
spianare la strada a un governo
militare, doveva infatti, attraverso
false rivendicazioni, anche riorientare
a sinistra le indagini su Piazza
Fontana, da qualche mese pericolosamente
sulle piste delle "cellule" di "Ordine
Nuovo" del Veneto.
La destra politica coglie subito
l'occasione per chiamarsi fuori da
simili strumentalizzazioni e, proprio a
Milano, indice per il 12 aprile una
manifestazione organizzata dal Movimento
Sociale - Fronte della Gioventù,
ufficialmente allo scopo di protestare
contro la sempre più incontrollabile
marea montante della violenza "rossa". A
questa manifestazione devono partecipare
nomi importanti del partito: Franco
Maria Servello, delegato MSI per Milano;
l'onorevole Franco Petronio; Ignazio La
Russa, all'epoca segretario regionale
del Fronte della Gioventù; Ciccio
Franco, che chi ha un minimo di memoria
storica ricorda sulle barricate di
Reggio Calabria a capitanare i moti
insurrezionali del 1971. Anche qui,
altri tre Poliziotti caduti: Antonio
Bellotti, Gabriello Pieroni, Vincenzo
Curigliano.
Ma, vista l'organizzazione paramilitare
dei manifestanti che ha caratterizzato
gli scontri di porta Venezia, non posso
fare a meno di pensare che essi
dovessero servire come sorta di
paravento per mascherare l'ennesima
"caccia al comunista" per le vie di
Milano.
La tensione politica che porterà alla
morte di Antonio Marino stava già
crescendo in modo incontrollato da
qualche giorno, con la manifestazione
una volta autorizzata, un'altra volta
vietata, poi ancora autorizzata. Fino
alla mattina del 12 aprile, un giovedì
di inizio primavera, quando il Prefetto
Mazza vieta ogni manifestazione fino al
successivo giorno 25. Ciò nonostante,
verso le 17:30 un nutrito gruppo di
missini - oltre un centinaio - si raduna
presso la sede del MSI di via Mancini,
con l'intenzione di spostarsi nella
vicina piazza Tricolore, mentre una
delegazione del partito veniva nel
frattempo ricevuta in Prefettura.
Quel giorno, il Reparto Celere di Milano
è in stato di allerta: una condizione
alla quale le guardie avevano fatto
ormai l'abitudine. Antonio Marino viene
comandato di servizio già dalla prima
mattina. Gli ordini sono chiari:
controllare ogni punto della città che
potrebbe essere interessato da
manifestazioni politiche di qualsiasi
tipo; in questo caso, le stesse dovevano
subito essere represse. Milano è
blindata: la Polizia ha ricevuto
rinforzi da Padova, da Bologna, da
Firenze. Come ho detto, questi sono anni
duri: l'ordine pubblico di allora non
aveva nulla a che vedere con quello dei
giorni nostri e lo Stato rispondeva alla
violenza terrorista con l'unico metodo
che conosceva: repressione a tutti i
costi, come pochi anni prima Scelba
voleva che si facesse in ogni piazza
d'Italia.
Nel primo pomeriggio di quel 12 aprile
era già chiaro a tutti i Poliziotti che
lo scopo principale della giornata per
loro era quello di riportare a casa la
pelle: durante alcune scaramucce in
mattinata era già stata lanciata
all'indirizzo di un "cordone" di agenti
una prima bomba a mano che aveva ferito
un militare e un passante. E non si
trattava delle "solite" molotov a cui ci
si era bene o male abituati: no, queste
sono bombe a mano del tipo SRCM, usate
dai militari in guerra. Sono bombe a
frammentazione, il cui effetto è tanto
più devastante quanto più ampio è il
loro raggio di azione.
Antonio Marino è lì con la sua
compagnia. Riceve l'ordine di schierarsi
tra via Bellotti e via Poerio per
impedire ai manifestanti di raggiungere
la Prefettura. Ne scaturiscono scontri
violentissimi: cariche, controcariche,
lacrimogeni. Si ode anche qualche colpo
di pistola.
Sono le 17:30. I ragazzi della "Celere"
si ricompattano per l'ennesima volta.
Sono stanchi, affamati, storditi dal
fumo acre dei lacrimogeni. Antonio è in
prima fila, imbraccia il suo scudo
rettangolare che deve proteggere i suoi
colleghi dal lancio di sassi e
sampietrini. Dall'angolo di via Poerio
sbucano due loschi figuri: sono due
militanti delle frange estreme del MSI:
Maurizio Murelli, 19 anni, e Vittorio
Loi, 21 anni, quest'ultimo figlio del
famoso pugile Duilio Loi. Erano già
stati visti poche ore prima in piazza
San Babila assieme ad altri "duri" del
partito; alcuni testimoni dichiareranno
poi di averli sentiti mentre stabilivano
come dividersi pistole, mazze ferrate e
- soprattutto - tre bombe a mano:
avevano litigato per questo, per avere
l'"onore" di tirarle ai poliziotti.
I due giovani hanno le mani in tasca.
Vedono il "cordone" del 3° Celere. Anche
Antonio li vede: sono due tipacci che
non portano niente di buono. E quando
li nota tirare fuori le mani dalle
tasche e lanciargli contro qualcosa, di
sicuro deve avere pensato all'ennesimo
lancio di sampietrini. E invece i due
gli lanciano contro una SRCM. Antonio
alza d'istinto lo scudo, chiude gli
occhi in attesa dell'urto del sasso,
preparandosi con il corpo a contrastarne
l'impatto.
Non li riaprirà mai più.
La bomba si infila maligna tra lo scudo
e il corpo del giovane Poliziotto,
esplodendo con effetti devastanti. A
basket lo si sarebbe potuto considerare
un lancio da 3 punti... Altri 12 agenti
resteranno feriti da quel maledetto
scoppio.
Il resto è affidato alle immagini della
RAI, le prime a colori: un Poliziotto è
riverso a terra, supino in una macchia
di sangue di dimensioni immense che si è
allargata su tutta la strada; la nuova
tuta grigio-verde che da pochi mesi era
stata adottata dai reparti celeri è
squarciata in più punti, l'elmetto
modello 33 è rotolato lontano. Qualcuno
pietosamente - ma sempre troppo tardi -
copre quello scempio con un lenzuolo
bianco.... Il bianco del lenzuolo, il
verde dell'uniforme, il rosso del
sangue: il più triste tricolore che
rimbalzerà su tutte le pagine dei
giornali.
Scoppia l'inferno. I colleghi di Antonio perdono la testa e solo l'intervento del Questore di Milano scongiura l'inizio di una caccia all'uomo per le strade della città. Al rientro alla "Sant'Ambrogio" succede di tutto: insulti contro i superiori, atti di insubordinazione, ordini di servizio strappati, ammutinamenti e sit-in in cortile. Le forme spontanee di protesta si propagano nelle caserme di Pubblica Sicurezza come un'epidemia. Inutilmente. Perchè la stagione delle bombe, i morti di piazza, il numero di colleghi infortunati e resi invalidi per colpa dell'imbecillità umana continueranno a crescere.
Ecco chi era Antonio Marino.
Ecco come è morto.
Come Antonio Sarappa, Antonio Annarumma,
Antonio Bellotti, Federico Masarin,
Carlo Reggioli e Antonio Custra è
l'ennesimo caduto "scomodo" che è più
facile dimenticare che onorare.
Perche per alcuni in fin dei conti un
omicidio volontario rientrava nel gioco
delle parti.
I suoi due assassini vennero presi e
condannati: 20 anni a testa, più o meno,
per la morte di un Poliziotto.
Oggi sono liberi.
Di Antonio rimane invece una lapide
sbiadita dal tempo e sotto cui
quotidianamente passano centinaia di
Milanesi. E se non fosse stato per un
comitato spontaneo che si è dato da fare
per rendergli onore, probabilmente non
ci sarebbe nemmeno quella.
Da quell'aprile 1973 sotto di essa sono
passate almeno due generazioni
meneghine.
Chissà quanti avranno alzato la testa
per leggerla.
Chissà quanti avranno ricordato quel
triste pomeriggio di primavera.
E chissà quanti l'avranno letta,
allontanandosi nell'indifferenza con una
scrollata di spalle.
Di sicuro noi no.
(per la Redazione Cadutipolizia: Gianmarco Calore) |