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FEUDO NOBILE Immagino l’Ultimo. La sua angoscia mentre vede i suoi compagni, i suoi commilitoni, i suoi fratelli venire uccisi, uno per uno. La sua paura, la sua umanissima, disperata paura mentre vede crollare senza vita, di fronte a sé l’ultimo dei colleghi. Che cosa avrà fatto? Avrà implorato pietà ai suoi carnefici? Avrà tentato di fuggire o di ribellarsi? Avrà affrontato la morte da Eroe risorgimentale, trattando con disprezzo i suoi assassini? Oppure, prostrato da quasi tre settimane di prigionia e di torture e sotto shock per avere visto i suoi colleghi, i suoi amici, morire uno ad uno, avrà accolto la morte come una liberazione? L’Italia della fine della Seconda Guerra Mondiale è qualcosa di inconcepibile, oggi. Come se parlassimo di un’epoca lontana, invece che del tempo in cui i nostri padri erano bambini ed i nostri nonni, ritornati dal fronte, guardavano sconvolti quel panorama di rovine che un tempo si era chiamata Italia. Nel Nord si continuava a morire. La guerra civile ufficialmente terminata il 25 Aprile continuava, in modo strisciante ma feroce. Morirono in tanti e le vittime furono i persecutori di ieri ma anche molti, troppi innocenti.In tutta la Penisola imperversavano spietate bande criminali che rapinavano, taglieggiavano ed uccidevano. Le cronache di quegli anni sono piene dei racconti sulle imprese di banditi come Bezzi e Barbieri al Nord, il Gobbo del Quarticciolo a Roma, La Marca in Campania e Giuliano in Sicilia, ma anche di delitti spaventosi originati dalla povertà e dalla disperazione. Gli Alleati, spesso, non si comportavano da Liberatori ma da sopraffattori. Ci sono decine di storie di aggressioni compiuti da soldati americani, britannici e francesi. Storie orribili di omicidi, di stupri, di saccheggi. Le storie tipiche di ogni Paese sconfitto in ogni epoca. Specialmente nelle città molte donne, rimaste sole dopo che il marito era stato divorato dalla guerra, per sopravvivere e per fare sopravvivere le loro famiglie, furono costrette a vincere la ripugnanza e vendettero il proprio corpo agli occupanti ed agli squallidi individui che durante il conflitto si erano arricchiti con la borsa nera. Ma forse nessuna regione italiana era stata umiliata peggio della Sicilia. Dopo lo sbarco alleato del 10 Luglio 1943 la regione era precipitata in una anarchia indescrivibile. Le città ed i villaggi siciliani erano sconvolti dalle rivolte per il pane e contro la chiamata alle armi ed alle quali uno Stato sconfitto ed umiliato reagiva spesso con una brutalità alle quali veniva risposto con altrettanta violenza. Centinaia di civili e di militari morirono in quegli anni durante manifestazioni delle quali oggi si è persa la memoria, ma che allora minacciarono la gracile Italia di quegli anni e la sua stessa esistenza di Nazione. Le autorità del regio governo non contavano più nulla e gli ordini provenienti dai ministeri ospitati prima a Brindisi poi a Salerno ed infine dal 1944 nuovamente a Roma, non venivano ascoltati nell’isola, dove gli ordini di prefetti e questori non valevano la carta sulla quale erano stampati. Gli Alleati, il vero potere nell’Italia di quegli anni, in Sicilia si erano appoggiati alla mafia, alla quale dovevano il successo dello sbarco. In molte zone i boss diventarono sindaci, in altre ebbero dei rapporti talmente stretti con gli Alleati da rappresentare un vero contropotere allo Stato. I siciliani erano prostrati dalla guerra, ridotti alla disperazione dalla fame, sconvolti da ciò che era accaduto alla loro terra. Era quasi inevitabile che in molti cadessero preda delle sirene dell’indipendentismo che prometteva loro un sicuro avvenire in una Sicilia libera. Molti indipendentisti erano persone degne e integerrime, convinte di fare l’interesse della propria isola, ma dietro al loro idealismo si stagliavano le ombre inquietanti della mafia, desiderosa di diventare essa stessa Stato senza però tagliare completamente i ponti con lo Stato italiano. Fu così che i boss trasformarono le bande di briganti che devastavano la Sicilia in “guerriglieri”, da contrapporre allo Stato, con la promessa di una amnistia generale quando l’Isola sarebbe divenuta indipendente. Fu il marasma da cui emersero dei figuri come Salvatore Giuliano nel Palermitano e Salvatore Rizzo nella Sicilia Orientale, autonominatisi “colonnelli” dell’esercito di liberazione. Mentre onorevoli e prefetti erano al sicuro nei loro palazzi di Palermo e Catania, spesso a stretto contatto con i mandanti dei banditi, l’Italia non più Regno ma non ancora Repubblica, era rappresentata da centinaia di carabinieri e agenti di Polizia, gettati allo sbaraglio nei mille paesi e villaggi siciliani, spesso in una piccola fattoria abbandonata con le pareti imbiancate con calcina dozzinale, ma sulle quali sventolava il Tricolore, simbolo di una Nazione che non voleva morire. Carabinieri e poliziotti erano soli. Male armati con i patetici moschetti ’91 e poche cartucce quando banditi e mafiosi attingevano agli enormi arsenali di armi che almeno quattro eserciti avevano abbandonato nell’isola durante la guerra. Equipaggiati peggio, tanto che spesso chi doveva uscire di pattuglia doveva ricevere gli scarponi dai colleghi smontanti, perché non c’erano calzature per tutti. Spesso si sentivano circondati dall’ostilità della popolazione. Non era vero, almeno non sempre, ma era difficile che con quel clima qualcuno avesse il coraggio di dichiarare la propria solidarietà a quegli umili rappresentanti dello Stato. Erano patetici? Forse. Ma rimasero al loro posto a difendere quella Bandiera a volte sbrindellata che sventolava sulle loro caserme e commissariati e seppero combattere e morire per difenderLa. Accadde il 29 Dicembre 1945, quando nei pressi di Caltagirone un battaglione di Carabinieri, questa volta ben armato ed equipaggiato, si scontrò con una grossa formazione di indipendentisti. Salvatore Rizzo e la sua banda, il gruppo più forte dei “guerriglieri” tagliarono la corda ed abbandonarono al loro destino gli idealisti puri, coloro che in buona fede avevano sperato che l’indipendenza avrebbe salvato la loro terra e che vennero distrutti dai militari in poco più di un’ora di battaglia. Rizzo preferì defilarsi e fuggire verso sud, verso l’incontro con il destino. Feudo Nobile è poco più di una masseria persa nelle campagne vicino a Gela. All’inizio del 1946 ospitava una piccola caserma dei Carabinieri, l’unica presenza dello Stato per chilometri. La mattina del 10 Gennaio 1946 il brigadiere Vincenzo Ammenduni, comandante della stazione di Feudo Nobile e quattro dei suoi militari, usciti di pattuglia alla ricerca di alcuni ladri di bestiame, si trovarono sulla strada della banda di Rizzo. Ci fu uno scontro a fuoco, ma quando i cinque carabinieri esaurirono le munizioni a loro disposizione furono costretti ad arrendersi. Poi fu la volta dei tre militari rimasti nella casermetta, costretti ad arrendersi dopo che i banditi assaltarono l’edificio a raffiche di mitra e bombe a mano. Gli otto carabinieri vennero quindi legati e costretti a seguire i banditi nelle loro peregrinazioni nell’interno della Sicilia. Quello che dovettero subire in quei giorni non è difficile da immaginarsi. Pestaggi, torture, stenti. Forse la peggiore delle torture fu quando a poca distanza da loro sentivano passare le squadriglie di carabinieri e agenti inviati alla loro ricerca. Non è difficile immaginarli mentre, imbavagliati e legati strettamente con corde e filo di ferro, con il viso schiacciato nella terra e la canna di un’arma piantata alla nuca, sentono le voci dei loro colleghi passare loro accanto a loro e scomparire, come navi che si perdono nell’orizzonte. Poi la speranza. Salvatore Rizzo avviò una trattativa con lo Stato, sicuramente con la mafia a fare da mediatrice. Le proposte erano chiare: la liberazione di alcuni capi indipendentisti e l’amnistia per sé ed i suoi o una comoda fuga all’estero. La trattativa andò avanti per quasi tre settimane. Si parlò di un’automobile che avrebbe dovuto prelevare gli otto militari e portarli sul luogo dello scambio. Ormai era fatta. Erano quasi liberi. “Torneremo a casa, ragazzi!” “Volesse il Cielo. La prima cosa che farò sarà di andare in chiesa a accendere un cero alla Madonna !” “ E la seconda?” “Una mangiata a casa dei miei a Catania. Voglio rimpinzarmi di pesce fino a scoppiare! Siete tutti invitati! ” Il giovane elegante giunse la sera del 28 Gennaio. Nessuno sa chi fosse, ma si sa che portò un messaggio a Salvatore Rizzo: la trattativa era fallita. Qualcuno aveva deciso che le vite degli otto carabinieri di Feudo Nobile non valevano uno scambio e li abbandonò al loro destino. Cosa provarono gli otto carabinieri quando videro Rizzo ed i suoi avvicinarsi e lessero la verità nei loro occhi e sentirono morire la speranza? Il brigadiere Vincenzo Ammenduni, i carabinieri Fiorentino Bonfiglio, Mario Boscone, Emanuele Greco, Giovanni La Brocca, Pietro Loria, Vittorio Levico e Mario Spampinato vennero uccisi ed i loro corpi gettati nel pozzo di una zolfatara abbandonata, dalla quale ciò che restava di loro fu recuperato solo alcuni mesi dopo. Salvatore Rizzo e la maggior parte dei membri della sua banda furono uccisi dalla mafia nei mesi successivi, perché testimoni scomodi di una inconfessabile trattativa tra i criminali e chi aveva il dovere di combatterli. Sopravvisse solo uno dei banditi, ritenuto evidentemente innocuo, ma che prima di scomparire schiacciato dall’ergastolo, raccontò del misterioso giovane elegante mai identificato che aveva comunicato a Rizzo il fallimento della trattativa. Dopo 62 anni non si sa chi abbandonò, condannandoli a morte, gli otto carabinieri. Probabilmente è morto egli stesso da anni, ma spero che prima di chiudere gli occhi abbia visto intorno a se i volti di coloro che aveva contribuito ad uccidere e abbia lasciato questo mondo con la loro stessa angoscia. Non sappiamo se questo 28 Gennaio l’Arma dei Carabinieri onorerà la memoria dei suoi otto Caduti di Feudo Nobile. Speriamo di sì. Se lo facesse sarebbe un omaggio verso le centinaia di Carabinieri ed Agenti Caduti tra il 1943 ed il 1950 in Sicilia, in difesa del Paese. Vincenzo, Fiorentino, Mario, Emanuele, Giovanni, Pietro, Vittorio e Mario sono ora sepolti nei cimiteri delle località d’origine, in tombe sulle quali probabilmente da anni nessuno depone più un fiore. Lo facciamo noi Poliziotti oggi, con queste nostre parole. (per la redazione di cadutipolizia.it Fabrizio Gregorutti) |