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PRIGIONIERI - l'Agente PAI Antonio Broccolo - Migliaia di agenti di Polizia e della Polizia dell’Africa Italiana caddero prigionieri del nemico durante la Seconda Guerra Mondiale e centinaia morirono durante la detenzione. Di malattia nei campi di prigionia Alleati, di maltrattamenti stenti ed esecuzione sommarie nei campi tedeschi, fucilati o gettati nelle foibe dai partigiani jugoslavi. Ma c’è una storia di prigionia che è ignota, la storia dell’Agente della PAI Antonio Broccolo, scomparso insieme ad altre centinaia di prigionieri e di soldati Alleati nell’affondamento della nave “Nova Scotia”. I giorni di dicembre del 1942 furono atroci sulla spiaggia di Zinkwazi, sulla costa della regione sudafricana del Natal. Le onde dell’Oceano Indiano per giorni riportarono a riva i resti, atrocemente mutilati dagli squali e decomposti dalla lunga permanenza in acqua, di almeno 120 esseri umani. Era tutto ciò che restava degli uomini che un tempo erano stati il carico della RMS “Nova Scotia”, un tempo un piroscafo di lusso della Marina Mercantile britannica, ma che, allo scoppio della guerra era diventato un trasporto truppe militari. Nel novembre 1942 il “Nova Scotia” aveva raccolto nel porto di Aden, all’epoca colonia britannica oltre settecento prigionieri di guerra italiani rastrellati nei campi di prigionia dell’Africa Orientale. Erano marinai della Regia Marina catturati nella base navale italiana di Massaua, in Eritrea al momento dell’invasione britannica del 1941, ma anche civili italiani, soldati del Regio Esercito e agenti della Polizia dell’Africa Italiana. Uno di loro era la guardia Antonio Broccolo, catturato dagli inglesi nell’ex Impero Italiano d’Etiopia e, come gli altri suoi compagni di sventura, deportato verso il porto sudafricano di Durban, dove gli italiani sarebbero stati assegnati ad altri campi di prigionia. Probabilmente molti dei prigionieri presero questo trasferimento con favore. Il Sudafrica avrebbe significato il lavoro in qualche piantagione, un ottimo diversivo rispetto all’inazione forzata nei campi POW (Prisoners of War) del Kenia e dell’Etiopia. La navigazione proseguì tranquilla, mentre la “Nova Scotia” scendeva verso sud, lungo la costa africana. In quei giorni il problema più difficile per i prigionieri italiani probabilmente fu l’afa soffocante nelle stive dove erano rinchiusi e da dove i soldati inglesi e sudafricani che facevano loro da scorta, li facevano uscire per circa un’ora al giorno per far loro respirare un po’ d’aria fresca. Poi accadde… I sottomarini tedeschi ed italiani dallo scoppio della guerra battevano le rotte delle navi mercantili e militari Alleate negli Oceani Atlantico ed Indiano, affondando letteralmente centinaia di unità navali nemiche. Erano marinai valorosi, duri e decisi e per la maggior parte dei combattenti leali. Uno di loro era il capitano di corvetta Robert Gysae, comandante del sommergibile U177 della Marina da Guerra tedesca, uno degli ufficiali più decorati nella storia. Con la sua unità percorreva le rotte dell’Oceano Indiano meridionale alla ricerca di navi nemiche da affondare e, poco dopo l’alba del 28 Novembre 1942 la vide, al largo della costa del Mozambico, all’epoca colonia appartenente al neutrale Portogallo. Immagino l’eccitazione della caccia a bordo dell’U177 mentre il comandante Gysae ed il proprio secondo ufficiale consultavano febbrilmente gli annuari navali in loro possesso, sino a che riconobbero in una pagina dell’annuario la sagoma della “Nova Scotia”. Nave britannica, priva di qualsiasi insegna…un legittimo obiettivo militare legittimo, probabilmente un mercantile con truppe o materie prime proveniente dall’India. Gysae ordinò il lancio di tre siluri, che alle 7,07 colpirono la fiancata sinistra del “Nova Scotia”, provocando uno squarcio terribile all’altezza della sala macchine, condannando a morte la nave ed i suoi passeggeri poi scomparve nelle profondità oceaniche, dopo avere avvisato Berlino del proprio successo ed avere invitato i propri superiori ad informare i neutrali portoghesi di quanto accaduto perché potessero soccorrere i naufraghi. Era un soldato, non un assassino. Sicuramente furono le stive le prime a finire allagate e con esse il loro carico umano. Immagino lo spaventoso muggito di orrore proveniente da coloro che non avevano avuto la fortuna di morire al momento dell’impatto dei siluri, ma che vissero quegli spaventosi momenti mentre l’acqua entrava impetuosa all’interno. Sicuramente alcuni dei soldati della scorta inglese e sudafricani accorsero per aprire le stive e per permettere ai prigionieri italiani di fuggire. Dopotutto erano uomini come loro e non potevano permettere che altri esseri umani morissero in questo modo orribile. Il “Nova Scotia” si inabissò alle 7,14, appena sette minuti dopo essere stato silurato, trascinando con sé sul fondo dell’Oceano centinaia di prigionieri e decine di soldati Alleati in un unico grido di orrore. Quanti italiani si salvarono grazie al coraggio dei militari della loro scorta e quanti inglesi e sudafricani morirono nel salvarli, compiendo il loro Dovere di Uomini e di Soldati, solo Dio può saperlo. I naufraghi rimasero per oltre un giorno e mezzo in balia delle onde del mare, su quattro zattere, e su alcuni canotti di salvataggio, aggrappati ai relitti, ricoperti di nafta, devastati dalla sete, con profonde ferite riportate nell’affondamento. I più deboli, gravemente feriti e stremati furono inghiottiti dal mare. Solo verso il tramonto del 29 Novembre i naufraghi vennero salvati dal cacciatorpediniere portoghese “Alfonso de Albuquerque” al comando del capitano Josè Augusto Guerreiro de Britto. Nell’affondamento del “Nova Scotia” morirono 652 prigionieri italiani, oltre 200 tra marinai e soldati britannici e sudafricani e cinque passeggeri. Solo 117 italiani e 64 britannici sopravvissero. Alcuni dei corpi di questi sventurati vennero trasportati a riva dalle onde nei giorni successivi sulla spiaggia di Zinkwazi che da allora nella lingua locale venne ribattezzata “Itys Bay”, la baia degli italiani. I corpi irriconoscibili di quegli uomini vennero sepolti dalle mani pietose di altri prigionieri italiani nel cimitero di guerra del campo di Hillary. Forse tra loro c’era anche l’agente della PAI Antonio Broccolo, o forse no. Forse è ancora laggiù sul fondo del Canale del Mozambico, insieme a tutti gli altri, italiani e britannici, amici e nemici, che morirono con lui in quella orribile mattina del 1942, terzo anno della guerra più disastrosa guerra nella storia dell’umanità. Ma nel campo di Hillary , sopra il sepolcro di quei 120 sventurati sepolti in terra consacrata, c’è un piccolo umile monumento dedicato dai prigionieri italiani del campo ai compatrioti scomparsi. Rappresenta una colonna spezzata che sorge dalle onde del mare. E’ il simbolo del sacrificio di Antonio e dei suoi 651 fratelli. L’omaggio di Italiani ad altri Italiani. (per la redazione di Cadutipolizia.it Fabrizio Gregorutti) |